Chi è, chi vuole essere, il sociologo che s’è inventato esperto di strategia e geopolitica? E, soprattutto, vale la pena occuparsene? Forse si, forse no. Anche perché, più se ne parla più Alessandro Orsini resta vittima di un narcisismo elevato al cubo. Non tanto perché gli piaccia apparire in televisione. Ci sta. D’altra parte ha subito capito che nei talk, se non vuoi fare il convitato di pietra, devi sempre alzare l’asticella della polemica, fino a sostenere che sarebbe meglio che l’Ucraina aggredita lasciasse vincere rapidamente Putin. Trovo queste sue posizioni radicalmente errate, e potrei finirla qui. Ciascuno è responsabile delle proprie opinioni e, se qualcuno chiede il suo parere, fa bene a dire quel che pensa. Pur consapevole, credo, che la caciara televisiva è uno spettacolo, non una sede scientifica. E, col tempo, l’esperto o presunto tale, rischia di diventare una macchietta. Le comparsate non fanno curriculum.
Perché, dunque, parlarne e contribuire, sia pure marginalmente, all’esplosione del suo ego? Ne faccio un fatto personale. Perché nel 2009 pubblicò un libro che mi aveva interessato: Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario. Uscì in una collana di studi diretta da un maestro come Luciano Pellicani per le edizioni Rubbettino (per trasparenza, è bene dire che è anche il mio pregevole editore). Orsini aveva 34 anni ed era, onestamente, un giovane promettente studioso. La sua tesi sui terroristi – comunisti o fascisti – come appartenenti alla categoria antropologica dei “purificatori del mondo”, e dunque accumunati da “un odio profondissimo verso ogni aspetto del mondo presente”, non era nuovissima, ma comunque interessante e ben argomentata. Decisi quindi di intervistarlo nella mia rubrica televisiva di allora.
Che fosse già un narciso mi apparì chiarissimo, ma in fondo chi non lo è? Non avrei però mai immaginato che potesse arrivare al punto di pensare che qualcuno si sia abbonato al “Messaggero” solo per leggere i suoi articoli. Né pensavo che potesse trovare conveniente l’immediata ospitalità garantitagli sul “Fatto” da Marco Travaglio. Perché nel 2011 il giovane sociologo fu criticato pesantemente da Travaglio per aver scritto sul “Giornale” un commento sugli incidenti provocati dal movimento No Tav in Val di Susa, che all’allievo di Montanelli sembrò, diciamo così, eccessivo. Il “Giornale” lo intervistò per una replica. E il sociologo disse che “Travaglio è un cattivo giornalista e mi ha rovinato la vita” (“Il Giornale”, 6 luglio 2011). E aggiunse <Travaglio ragiona in maniera primitiva: se scrivi un articolo per il Giornale sei moralmente corrotto. Sei sul libro paga di Berlusconi. Tengo a precisare che non ricevo compensi per i miei articoli. Il fatto che debba precisarlo mi fornisce una misura precisa del clima da inquisizione in cui siamo precipitati. Se avessi scritto le stesse cose su “Il Fatto Quotidiano”, Travaglio mi avrebbe applaudito>. Il sociologo ebbe in quell’occasione l’opportunita’ di definirsi come <uomo di sinistra da sempre>. Il che è oggettivamente legittimo, a qualunque sinistra ci si riferisca. Nel suo caso, immaginavo, al socialismo riformista del suo mentore Pellicani, indimenticabile direttore di quella bella rivista che si chiamava “Mondoperaio”.
Non sono uno psicologo. Ma noto che ci sono delle costanti nell’Orsini pensiero, se così si può dire: la consuetudine di spararla grossa per far parlare di sé; il vittimismo, come se non sapesse che chiunque partecipi al dibattito pubblico, in qualunque forma, è soggetto a critica, anche dura; la questione economica. Per il “Giornale” scriveva gratis. Non ho elementi per contraddire, né mi interessa. Sul “Messaggero” no. Ora sostiene che talk concorrenti gli hanno offerto molto di più della Berlinguer, ma che ha scelto al ribasso per stima. Tanto da essere disposto ad andarci anche gratis. Gratis, contratti, soldi… Al sociologo questo tema, certamente sta a cuore. Mi verrebbe da consigliargli qualche riflessione. Altrimenti rischia di essere incardinato nella geniale categoria di Dagospia, quella dei “morti di fama“, e di fame. Non voglio interrogarmi sui percorsi che – mentore Pellicani – lo hanno condotto alla cattedra di professore associato alla Luiss, né sul senso e sulla struttura dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale affidatogli dalla peraltro ottima università di Confindustria. Sarei piuttosto curioso di sapere come Luciano Pellicani valuterebbe l’evoluzione del suoi allievo. Purtroppo il maestro ci ha lasciato due anni fa. Forse si è risparmiato un travaso di bile.