Basterebbe forse aver visto, tra i tanti, il film Australia di Baz Luhrmann (2008) per aver compreso come il tema del meticciato abbia attraversato epoche e continenti, sin dall’inizio del colonialismo. Il piccolo Nullah è figlio di un bianco australiano di origine britannica e di una “serva” aborigena. È ovviamente uno stereotipo, perché i casi sono i più disparati, ma rende l’idea. Né bianco né “nero”, Nullah rischia di essere respinto da ciascuna delle sue due etnie. Non conta qui come finisca la sua parabola nell’invenzione cinematografica. Conta, invece, il tema affrontato dalla storica Silvana Patriarca, che nel ripercorrere le dolorose vicende nei “neri” italiani, bene avrebbe fatto a inquadrarla, non solo di sfuggita, nel complesso fenomeno globale, sottraendosi alla retorica degli “italiani cattiva gente”, che col tempo si è sovrapposta a quella degli “italiani brava gente”.
Tuttavia si tratta di una ricerca più che opportuna, anzi necessaria, se si pensa a quanto il tema sia stato accantonato nella memoria del paese, se non per emergere in rare narrazioni pietistiche. Dunque l’Italia, nella gestione del suo rapporto con gli indigeni, si è comportata esattamente come tutte le potenze coloniali. E d’altra parte la questione ancora riguarda paesi in cui il meticciato e, in ogni caso, il rapporto tra diverse etnie, deriva dall’epoca schiavista, che l’Italia non ha vissuto. Ma che, probabilmente, avrebbe vissuto, se la sua esistenza come Stato unitario aspirante, almeno, al ruolo di media potenza, non fosse stata storicamente così tardiva.
In fondo la schiavitù negli Stati Uniti fu formalmente abolita solo nel 1865, appena quattro anni prima dell’Unità italiana. Solo nel 1888 si adeguò il Brasile. Si passò, comunque, nelle colonie, alla rigorosa “separatezza” tra europei e indigeni, per l’Italia fin dalla conquista dell’Eritrea, nel 1882. Allora il meticciato – spesso, ma non solo, frutto di rapporti extramatrimoniali, clandestini o “paralleli” – preoccupò innanzitutto la Chiesa, ovviamente contraria al “madamato”, mentre dalle autorità militari e civili era tollerato e in qualche misura incoraggiato, per evitare la diffusione del meretricio. I meticci potevano essere riconosciuti dai padri e, dunque, acquisire la cittadinanza italiana. Nel 1937, con l’acuirsi del razzismo, il madamato fu vietato per legge. Nel 1940, infine, ai padri fu vietato di riconoscere i figli meticci.
Ma in generale il tema – in tutte le sue sfaccettature – è stato sottovalutato dalla storiografia, in particolare per quanto concerne le migliaia di “figli della guerra”, ossia delle relazioni tra militari di colore delle truppe alleate e donne italiane. Anche qui frutto spesso di violenza, ma non solo. Con il suo lavoro, Silvana Patriarca colma una lacuna e lo fa, ottimamente, seguendo le loro tracce – si pensi al caso del Tombolo, nel Pisano, o alla toccante autobiografia di Antonio Campobasso (Nero di Puglia, Feltrinelli, Milano 1980) – ed evidenziando la percezione sociale e culturale del fenomeno, che ondeggia tra il pietismo di Tamurriata nera e di alcuni film (Il mulatto di Francesco De Robertis e Angelo tra la folla, di Leonardo Di Mitri, entrambi 1950) e un franco razzismo, che permane a lungo dopo la seconda guerra mondiale, attraversando, con motivazioni parzialmente diverse, l’intero arco politico. D’altra parte, va sempre ricordato che le leggi razziali del 1938 non furono abrogate immediatamente dal governo Badoglio, ma solo nel gennaio del 1944. E anche che le vittime di quelle leggi faticarono non poco a riconquistare il loro posto nella società.
Silvana Patriarca, Il colore della Repubblica. “Figli della guerra” e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, Torino 2021