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In camicia quasi nera. Il “Corriere della Sera” durante il fascismo

Giugno 16, 20220

Il 18 maggio del 1936 il redattore capo del “Corriere della Sera”, Oreste Rizzini, scriveva a Guido Piovene questa lettera: <Caro Piovene, le raccomando di rivedere molto attentamente i manoscritti dei suoi articoli e di controllare le citazioni. Nell’articolo pubblicato oggi, Un popolo senza figli, abbiamo evitato per un punto un errore veramente imperdonabile per il Corriere della Sera. A p. 4 del suo manoscritto ella ha attribuito a Catullo il motto <Nec tecum nec sine re vivere possum>. Ella aveva scritto <sine tecum>, e questo è stato corretto da un correttore; per fortuna un altro correttore, vedendo l’articolo mentre lo si impaginava, si è accorto dell’attribuzione a Catullo, e l’ha fatta giustamente correggere attribuendola ad Ovidio, il quale, usandola negli Amores, l’ha tolta di peso a sua volta da Marziale>.

Il 2 febbraio 2022, nel “corriere.it”, in morte dell’attrice, è apparso questo titolo: <Travolti da un insolito destino…>: l’interpretazione più celebre di Monica Vitti. Sotto il titolo la foto di Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, protagonisti del film di Lina Wertmüller. Poi il “Corriere” si è scusato. Ma il fatto resta. Perché non si tratta di un semplice refuso. Non è difficile immaginare come Rizzini avrebbe reagito… Ma quasi certamente non sarebbe accaduto.

I due episodi – altri se ne potrebbero citare – mostrano la distanza siderale tra la qualità del giornalismo contemporaneo e quello di un’altra epoca. Ma spiegano anche perché il “Corriere della Sera”, grazie a Luigi Albertini e a Eugenio Balzan, riuscì nel 1906 a scavalcare il “Secolo” di Milano nella diffusione e a diventare il primo quotidiano italiano. Si affermò per i contenuti, garantiti da investimenti notevolissimi, ma anche per il suo “stile”. Uno stile durato alcuni decenni, <fatto anche – chiarisce Giovanni Belardelli – di cura e precisione in ciò che costituiva lo specifico lavoro giornalistico: la stesura degli articoli>. Lo stile che ha consentito al quotidiano di via Solferino di essere considerato una fonte certa, autorevole, che non ammetteva dubbi. <Lo ha scritto il Corriere>, si diceva. Poi si dirà <Lo ha detto la radio>. E più avanti <Lo ha detto il telegiornale>. Un mondo che non c’è più. Ma lo stile era ancora ben presente e rispettato, nel nome della tradizione albertiniana, anche negli anni oggetto dello studio di Giovanni Belardelli, autore di questo prezioso Il <Corriere> durante il fascismo. Profilo storico, primo tomo del terzo volume della Storia del Corriere della Seracurata da Ernesto Galli della Loggia. Il secondo tomo del cofanetto raccoglie i Documenti, 1925-1945, a cura di Cristina Baldassini.Un volume importante, che è sì storia del “Corriere”, ma in quanto tale è anche storia del fascismo, dei suoi rapporti con la cultura e la stampa e, in fondo, degli italiani nel fascismo.

Dopo il delitto Matteotti, il fascismo assume definitivamente il carattere dittatoriale, e al giornalista Mussolini non sfugge l’urgenza di controllare totalmente il “quarto potere”. Già il 12 giugno 1924, quando è nota solo la scomparsa del deputato socialista, lamenta con il fratello Arnaldo la <sobillazione delle masse da parte della stampa asservita>. La “fascistizzazione” della stampa ebbe tempistiche diverse, perché si andava a incidere anche sulle prerogative della proprietà delle aziende editoriali, attribuendo di fatto al governo il diritto di nominare i direttori dei giornali. Nel caso del quotidiano di via Solferino si trattava di far acquistare dai fratelli Crespi le quote societarie dei fratelli Albertini. Alla fine del 1925 tutto era risolto. Alberto Albertini lasciò la direzione e Pietro Croci fu il primo direttore “gradito” al fascismo. Durò appena qualche mese, poi gli subentrò, nel marzo del 1926, il letterato Ugo Ojetti. Anche questa fu una direzione breve. Nel dicembre del 1927 toccò al primo fascista militante, Maffio Maffii, che era stato responsabile dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Fu considerato poco incisivo. E fu la volta del calabrese Aldo Borelli, già direttore de “La Nazione”, scelto dal segretario del PNF Augusto Turati, contro la candidatura di Lando Ferretti. Tenne la direzione dal settembre del 1929 al 26 luglio 1943. È dunque Borelli il vero protagonista del “Corriere” di epoca fascista. Meglio si potrebbe dire del “Corriere” fascista, guidato da un giornalista totalmente allineato, e anzi cantore del genio mussoliniano, al quale aveva dedicato il saggio La Diana degli spiriti.

Si è spesso detto che Borelli – ottimo professionista, peraltro – riuscì a garantire al giornale una certa di indipendenza dalle direttive del regime, preservandolo dalla sorte di totale sudditanza toccata a tutta la stampa. Belardelli ricorda il giudizio espresso da Indro Montanelli, che ne era stato giovane redattore: <La sua tattica era questa: lasciare la prima pagina alle “veline” nel Minculpop com’era d’obbligo per tutti i giornali, senza nemmeno migliorarle, in modo che fossero sempre meno lette; il resto, specialmente la cultura – di cui il Corriere aveva nei suoi ranghi il meglio -, tenerlo scrupolosamente fuori da ogni contaminazione politica>.

La testimonianza di Montanelli ha però il sapore di una postuma “assoluzione” di un Borelli “fascista gentiluomo” e, di conseguenza, dei suoi redattori. Il suo è un giudizio che – nota Belardelli – <Già in riferimento ai primi anni Trenta […], possiamo considerare del tutto infondato>. Può affermarlo, con cognizione di causa, perché, affrontando la storia del “Corriere” nel periodo fascista, opportunamente non si è soffermato sulla registrazione della scontata obbedienza degli editoriali, della cronaca politica e della cronaca tout courtalle disposizioni dell’Ufficio stampa della presidenza del Consiglio, poi sottosegretariato e infine Ministero della cultura popolare, bensì si è concentrato essenzialmente sui contenuti della terza pagina, che talvolta aveva un’appendice nella quinta, e anche nell’edizione pomeridiana.

Borelli riuscì dove Ojetti e Maffii avevano parzialmente fallito. Riuscì, cioè, a rendere il “Corriere” un affidabile strumento del regime. Già nel settembre del 1930 il direttore si sente in dovere di relazionare in questo senso a Turati, assicurandolo che il più è fatto, ma che la “fascistizzazione” sarà ancora più completa. <Credo – scrive Borelli – di aver adempiuto con un certo successo la funzione politica affidatami imprimendo al Corriere un carattere fascista che ho voluto nel tempo rendere sempre più profondo, non limitandomi alla prima pagina e alla cronaca dov’è più facile raggiungere anche visivamente lo scopo, ma interessandomi di inquadrare nell’etica del Regime gli articoli di arte di varietà ecc. che alcuni ritengono, a torto, non contenibili in una disciplina politica>.

Come rileva Belardelli, <Borelli mirava a fare del giornale lo strumento di una specie di educazione civica in senso fascista>, tutt’altro dalla zona francadi cui si è favoleggiato. Compito non facile, perché contestualmente il direttore intendeva confermare non solo il primato di diffusione del quotidiano, che garantiva ai proprietari gli utili, ma altresì lo “stile” che gli aveva consentito di raggiungere questo obiettivo industriale. Lo “stile” era nella forma, ma anche nella qualità dei collaboratori della terza pagina, in pratica tutti i grandi esponenti della cultura italiana del tempo, fossero essi accademici, scrittori o strettamente giornalisti. La loro presenza aveva consentito al “Corriere” di diventare una sorta di istituzione culturale della nazione. Una recensione sulle sue pagine, persino se moderatamente critica, valeva più di un premio letterario.

Borelli fu molto abile nel destreggiarsi. Gli articoli erano letti attentamente e spesso venivano rinviati al mittente con le correzioni suggerite, se non addirittura respinti. Correzioni di forma, ma anche e soprattutto di sostanza. Fossero pure della premio Nobel Grazia Deledda, alla quale il direttore chiedeva di inviare novelle capaci di esaltare il ruralismo in auge. Un suo elzeviro fu comunque respinto perché – le scrive Borelli nel marzo del 1935 –  <Non mi sembra […] opportuno in questo momento dare un così crudo esempio di durezza mentre, dati i tempi, noi tendiamo a forme sempre più strette di solidarietà nazionale>. Ad Ada Negri, per fare un altro esempio, si chiedeva nel maggio del 1934 di modificare un racconto considerato <un po’ intimidatorio nei riguardi della maternità>. Non sono dunque gli articoli pubblicati sul “Corriere” buoni testimoni del “vero” pensiero delle due scrittrici. E non vale solo per loro.

Col tempo, negli anni Trenta, la terza pagina affrontò sempre più frequentemente anche temi strettamente politici. Come sottolinea Belardelli, <L’asetticità della terza pagina – quando c’era – costituiva l’ingrediente di un discorso complessivo che distribuiva in luoghi diversi del giornale temi diversi. Se la terza pagina poteva avere a volte – persino durante la guerra – un carattere apolitico, ciò serviva a rendere in qualche modo accettabile l’iperpoliticità di altre pagine, a cominciare dalla prima, con le sue titolazioni inneggianti al duce e alle attività del regime>.

In questo senso, a Borelli va riconosciuta – nella stretta osservanza alle direttive del regime, anche in tema di legge razziali – la capacità di mediare con i vertici politici ai quali è legatissimo e dai quali riceveva pressioni di ogni tipo, anche per l’assunzione di collaboratori – e di gestire il suo“Corriere” come un’orchestra, nella quale ciascun musicista è fondamentale nel definire l’armonia complessiva. Grazie a questa abilità, Borelli ebbe un ruolo di grande rilievo nel mondo culturale dell’epoca. In sostanza, il “sistema” Borelli fece del suo abile e spregiudicato inventore uno degli uomini più potenti dell’Italia culturale in camicia nera.

Giovanni Belardelli, Il “Corriere” durante il fascismo. Profilo storico, Fondazione Corriere della Sera, Milano 2021

Una versione più ampia di questo testo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice”, a. XXXIV, nuova serie, n.1/2022, e in G.S. Rossi, Ritorno al Novecento. Nella notte, all’improvviso, EFG, Gubbio 2022.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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