Gira voce di un complotto. Gira voce che le elezioni politiche del 2023 non si terranno a marzo/aprile ma più avanti, verso fine maggio, persino giugno. Come sia possibile, rispettando il senso del dettato costituzionale, mi sfugge. Si votò il 4 marzo 2018. Le Camere saranno sciolte dal 5 marzo 2023, mantenendo però i poteri fino all’insediamento delle nuove, che deve avvenire entro 20 giorni dalle elezioni. L’articolo 61 della Costituzione stabilisce che le elezioni devono svolgersi entro 70 giorni dallo scioglimento delle Camere scadute. Cioè, se non vado errato, entro il 14 maggio 2023. Salvo catastrofi planetarie, perché mai si dovrebbe menare il can per l’aia e non votare a fine aprile, con tutto il tempo per convocare i comizi elettorali, almeno 45 giorni prima del voto?
I teorici del complottismo segnalano che nella primavera del 2003 scadono i vertici di tutte le grandi aziende pubbliche. E qualcuno starebbe immaginando che sarebbe meglio nominarli prima di un probabile cataclisma elettorale. Il quale cataclisma è sicuro. Basta leggere i risultati delle amministrative. Pur tenendo conto delle liste civiche, che a 360 gradi sottraggono consensi ai partiti nazionali. Pur tenendo conto delle difficoltà evidenti sia nel presunto “campo largo” di sinistra, sia nell’area di centrodestra. Due sono i casi in evidenza. Da una parte il tracollo annunciato dei 5Stelle. Dall’altro il successo – non certo inaspettato – di Giorgia Meloni. Non sono un complottista. Non nego che i complotti esistano. Ma devono essere provati, non ipotizzati. E siccome credo nella democrazia preferisco pensare che tutto si svolgerà secondo regola, senza stiracchiare la Costituzione. Vedremo.
Nel frattempo Giorgia Meloni è entrata del mirino dei detrattori professionali. Lo “scandalo” nasce dal suo intervento, a Marbella, all’iniziativa degli spagnoli di Vox, a sostegno della candidatura di Macarena Olona alla presidenza dell’Andalusia. Peraltro il Partito Popolare ha ottenuto la maggioranza assoluta e non avrà bisogno, questa volta, del sostegno del partito nato per scissione alla sua destra.
Ma torniamo in Italia. Da quel comizio andaluso della Meloni è scaturito un florilegio di insulti. Ovviamente centrati sul suo presunto fascismo malamente occultato. Un fuoco di fila. Protestano le attrici Kasia Smutniak e Vanessa Incontrada, protesta la vicepremier spagnola Yolanda Díaz, protesta Enrico Letta, protesta Lucio Caracciolo, protesta la responsabile Esteri del Pd Lia Quartapelle, protesta l’autorevole – si fa per dire – grafico pubblicitario Oliviero Toscani. Per lui – che sostenne le Sardine (ricordate le Sardine?) – <Questa povera donna dice un sacco di cazzate>. Dimentico sicuramente qualcuno, ma non è che voglia fare l’elenco degli indignati. Per loro, gli indignati, la Meloni sarebbe sessista, razzista, antisemita, e chi più ne ha più ne metta, tanto cambia poco. Manca, mi pare, l’accusa di filoputinismo. Deve essere sembrata eccessiva anche agli indignati, vista l’immediata presa di posizione atlantista, peraltro nella tradizione della destra italiana. Equivoci ce ne sono su questo punto, anche nella politica italiana, ma non riguardano la Meloni.
Chi sarà mai, dunque, questo mostro di donna che si permette di dire che l’Europa va riformata perché così – in mano ai burocrati – non funziona; che gli Stati Uniti sono alleati ma gli europei non devono essere servi; che la famiglia naturale va sostenuta; che la finanza sovranazionale non dovrebbe decidere il destino dei popoli; che il jahidismo islamico è pericoloso (lo pensava persino Gheddafi); che l’immigrazione va regolata e non deve essere un’invasione; che la nostra civiltà va difesa; che la cancel culture è un’idiozia. Perché mai dovrebbe essere pericolosa questa donna che tanti consensi sta raccogliendo?
A me, francamente, non pare. Lo dico con chiarezza. Da osservatore scettico della politica. E anche, se mi è permesso, perché un po’ la conosco. Da tempo. Son passati almeno sedici anni. Era il 2006 e fui invitato in Campidoglio a presentare un libro di Marco Marsilio, oggi presidente della Regione Abruzzo. Di quel libro – “Razzismo, un’origine illuminista” (Vallecchi) – ero peraltro il prefatore. Dissi quel che pensavo del razzismo e dell’antisemismo. Lei non aveva trent’anni. Ed era lì, ad ascoltare attenta. Poi diventò vicepresidente della Camera e Ministro. Ne ho incrociati tanti di politici, per professione. Lei se la cavò bene. Aveva ed ha il “quid”, dovrebbe ammettere qualcuno… Se mi sbaglio lo scopriremo. In ogni caso, credo non meriti insulti. Né merita di essere rappresentata per quel che non è. Non dispongo di sfere di cristallo, dunque non so se vincerà le prossime elezioni in data incerta. Ma facciamola finita con gli insulti.
Qualche settimana fa l’ho rincontrata a Viterbo, per la presentazione del suo libro “Io sono Giorgia”. L’ho fatto volentieri. Domande. Risposte. Magari lunghe, ma chiare, di buon senso. Non ho incontrato una donna-mostro. Né una “ducetta”, come la chiama “Dagospia”. Il sito di Roberto D’Agostino è sarcastico e tagliente con chiunque, o quasi. Ma nel caso della Meloni non c’azzecca.
Di complotti, comunque, non so. Abbiamo davanti mesi difficili e la politica sembra una maionese impazzita. Non faccio previsioni. Mi appello a quel confronto-intervista tra Norberto Bobbio e Renzo De Felice pubblicata da “Panorama” nell’aprile del 1995. Bobbio sperava si realizzasse il <sogno di un’Italia normale>. De Felice rispose: <con una sinistra normale, con una destra normale>. Lo vorrei anch’io. Gli insulti non fanno parte di un’Italia normale… Le critiche, anche radicali, sì. Gli insulti no. Dal confronto tra legittime idee diverse dovrebbero essere bannati, come si dice oggi. Dovrebbero.