Un po’ per la campagna elettorale, un po’ per la perdurante afa agostana, un po’ perché è diventata una guerra di trascinamento della quale non si intravvede la fine, il conflitto russo-ucraino sta perdendo di interesse nel dibattito pubblico. Possiamo amareggiarci ma non stupirci. È fatale che sia così, in assenza di eventi decisivi, almeno potenzialmente.
Prevale, in questa fase, la preoccupazione per la crisi energetica. Che tocca le imprese, ma presto toccherà tutti noi. Una crisi aggravata dalla guerra, ma che è cominciata ben prima, ormai quasi un anno fa. E anche per questa non si vede luce in fondo al tunnel. Tante ipotesi, poche soluzioni.
Bene ha fatto, dunque, Angelo Panebianco, sul “Corriere” di oggi a riportare al centro del dibattito la questione fondamentale, cioè le conseguenze della crisi ucraina sugli equilibri internazionali. Poiché concordo con quanto scritto, non sto qui a farne il riassunto. Chi vuole, lo trova qui. (https://www.corriere.it/opinioni/22_agosto_29/noi-alleanze-valore-linea-atlantica-227e000e-27c7-11ed-83db-919b375d30ef.shtml?refresh_ce).
Mi limito a due passaggi che ritengo essenziali. <Ha ragione Vittorio Emanuele Parsi (sulla Rivista di Politica) – scrive Panebianco – quando osserva che se alla fine la Russia — complice anche l’indebolimento dell’appoggio europeo agli ucraini — dovesse risultare vincitrice in Ucraina, la Nato probabilmente non sopravviverebbe a lungo alla sconfitta. E la sua fine coinciderebbe con la fine dell’atlantismo>. Spero che questo non accada, ma il rischio c’è e far finta di niente è pericoloso.
Si tratta, infatti, di scegliere con chiarezza, senza equivoci, da che parte stare. Si tratta di scegliere se, con tutti i suoi difetti, vogliamo – come individui e come italiani – essere nel campo Atlantico o in quello degli imperi autocratici.
Circola, con evidenza, anche tra noi, un anti-occidentalismo dichiarato. Ma, ricorda giustamente Panebianco, <C’è però anche una forma più sottile di anti-atlantismo. Si presenta, apparentemente, come politicamente neutrale, veste i panni del realismo politico e dell’obbiettività scientifica. È la posizione di coloro per i quali stiamo assistendo a uno scontro di potenza fra imperi e l’atlantismo è solo la longa manus dell’impero americano. Costoro non dicono di preferire Russia o Cina. Ma dicono in sostanza che gli imperi pari sono, e a competere sono semplicemente opposti progetti imperiali al servizio degli interessi di ciascuno di essi. Hanno torto quando vedono in azione opposti progetti imperiali? No, non hanno torto. Ma dicono solo una mezza verità. E, detta così, una mezza verità è l’equivalente di una bugia. Perché gli imperi — anche ammesso che si possa definire «impero» tout court l’egemonia internazionale statunitense — pari non sono affatto. Fatte le dovute proporzioni e tenuto conto della differenza fra le situazioni storiche, c’è fra l’America e il suo operare nel mondo da un lato e la Russia e la Cina dall’altro, una distanza equivalente a quella che, nella prima metà del Settecento, Montesquieu riscontrava fra l’impero creato dall’Inghilterra (terra di libertà, secondo il filosofo francese) e l’impero dispotico russo dei suoi tempi>.
Le cose stanno così. Si tratta appunto di scegliere. Perché, avverte Panebianco, <Atlantismo e società libere occidentali restano legate a filo doppio: simul stabunt, simul cadent. Sopravvivono insieme o cadono insieme. Ricordiamocelo in questa campagna elettorale che tutti (russi per primi) osservano con attenzione ipotizzando che l’Italia sia l’anello più debole della catena atlantica. In ogni caso, gli annunci di morte dell’atlantismo sono prematuri. Partita aperta e pronostici incerti>.
Molto incerti. Per questo è necessario essere accorti e cercare di capire bene perché la Russia ha deciso il 24 febbraio scorso di invadere militarmente l’Ucraina. Molto se ne è scritto in questi mesi, anche in modo superficiale. Superficiale invece non è il dossier curato dal direttore della Rivista di Politica Alessandro Campi, dossier citato anche da Panebianco. Non si tratta di scritti d’occasione ma, di analisi ragionate che <si dovrebbero poter leggere anche tra sei mesi o sei anni, cogliendone anche a distanza il rigore scientifico, nonché la serietà e serenità dei giudizi esperti>, come sottolinea il curatore. Il quale ammettere di non concordare su tutti i contenuti e di divergerne talvolta in modo <quasi radicale>. Forse è proprio questo dibattito scientifico aperto a suggerire di leggere il dossier. Sapere per giudicare.