Ambiguità. Pelosa. Di questo sono diffusori gli organizzatori delle “marce della pace” che si annunciano. Parlano di pace, ma lo fanno con lingua biforcuta, come si sarebbe detto una volta. A quasi otto mesi dal quel 24 febbraio che ha visto tornare la guerra nel cuore dell’Europa. Quella notte la Russia aggredì militarmente l’Ucraina, occupandone alcune regioni orientali, poi annesse con referendum farseschi.
Da qui bisogna partire. Dalla distinzione tra aggrediti e aggressori. La Russia di Putin contro uno Stato sovrano. Giustamente l’Occidente sta sostenendo lo sforzo difensivo di Kiev. Il “pacifista” tipo sostiene che non se ne esce senza una trattativa. Vero. Dimentica, tuttavia, che per trattare bisogna essere in due. C’è da augurarsi che lo scenario cambi ma, per ora, Putin non sembra avere alcuna volontà di sedersi a un tavolo di trattative – con qualunque mediatore – e continua a mobilitare le sue residue risorse militari, minacciando anche il ricorso al nucleare tattico.
Marciare per la pace, anche se concretamente serve a poco, è cosa buona e giusta. Ma solo se lo si fa per chiedere all’aggressore di fermarsi. Chiederlo anche all’aggredito è, appunto, ambiguità pelosa. Nasconde un non detto, che solo gli ipocriti non possono capire. Nasconde cioè la volontà di pretendere un cessate il fuoco unilaterale da parte dell’Ucraina. Se lo facesse, si lascia intendere, molte vite sarebbero salvate e avremmo risolto tutti i nostri problemi. Quelli energetici, innanzitutto. E quelli economici che ne derivano. Questa pretesa è eticamente legittima? Veramente vogliamo che Kiev smetta di difendersi e la Russia inglobi definitivamente una parte dell’Ucraina? Veramente crediamo che, in questo caso, il nuovo Zar non prosegua – presto o tardi – verso altri fronti? Ingenuità. O anche qualcosa di peggio. Connivenza con l’aggressore.
Certo, le sanzioni fanno male anche a noi. Certo, attraverseremo mesi difficili. Ma qui e ora non sono in ballo solo le bollette. Qui è in ballo il principio della autodeterminazione dei popoli. Qui è in ballo il destino dei popoli che hanno scelto, irreversibilmente, di vivere in sistemi politici democratici. Il presidente Mattarella, bene ha fatto a sottolineare che quella in corso è <una guerra sciagurata, che la Federazione Russa ha scatenato arrogandosi un inaccettabile diritto di aggressione. […] La pace è urgente e necessaria. La via per costruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino>. Di questo si tratta, senza ambiguità.
Pace sì, prima possibile, ma non a vantaggio dell’aggressore. Eppure, quel che si muove tra i “pacifisti” è l’ambiguità. Pacifisti di ogni colore, in verità. Cattolici, estrema sinistra, grillini, filoputiniani di destra, di sinistra e di complemento. Ciascuno che le sue ragioni teoriche. Tutti incapaci di parlare con lingua dritta, non biforcuta. Marciate, dunque. Ma dite la verità. La verità che non è, per dirla tutta, una consuetudine dei movimenti pacifisti.
Ricordo che il movimento per la pace fu creato in Francia alla fine del 1947 da un dirigente del Partito Comunista, Charles Tillon. L’anno dopo diventò movimento dei “Combattenti per la Pace e la Libertà”, poi assunse varie denominazioni, ma senza cambiare indirizzo politico. In sostanza critico dell’Occidente e simpatizzante dei regimi comunisti mondiali. Presidente, fino alla morte nel 1953, fu Yves Farge, socialcomunista. Non per caso fu onorato con il “Premio Stalin per la pace”, poi ribattezzato Lenin.
Al movimento per la pace aderirono molte personalità della cultura, da Pablo Picasso a Jean-Paul Sartre, da Simone de Beauvoir a Louis Aragon. E poi cantanti, attori… Consapevoli? Non consapevoli di essere utilizzati da Stalin come mosche cocchiere? La mosca che, nella favola di Fedro, si illude di guidare la mula, che invece sa perfettamente di dipendere dalla frusta del cocchiere. Caduto Stalin, quegli intellettuali si innamorarono di Mao. Sartre, nel 1972, sosteneva che <la violenza rivoluzionaria […] è immediatamente e profondamente morale>. Quanti ferventi ammiratori del Mao diverso da Stalin, anche in Italia. Il solo Luigi Pintor, nel 1999, avrà l’onestà di ammettere che <fu un errore, una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello (sovietico) con altri modelli internazionali. Restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo – sbagliando – valenze liberatrici>.
Abbagli. Gravi. Che riemergono nei non detti dei marciatori ambigui, incapaci di fare nome e cognome dell’aggressore.
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