Renzo De Felice, affrontando nella biografia mussoliniana gli anni Trenta, ritenne <significativo> quanto nel 1946 scrisse Herbert L. Matthews, corrispondente dall’Italia del “New York Times”: <Il Duce ebbe in quegli anni realmente un enorme consenso popolare; tributo che veniva pagato più a lui personalmente che non al regime, sebbene per quel che si ha modo di giudicare, la maggior parte della gente fosse anche indubbiamente favorevole al fascismo> (HL. Matthews, I frutti del fascismo, 1946, cit. in Mussolini il duce. Gli anni del consenso. 1929-1936, p.35). Il che, tuttavia, non significa negare che, accanto al consenso, ci sia stato anche il dissenso. Di vario tipo, in forme diverse, e con esiti molto dissimili. Alcuni tragici – si pensi solo all’uccisione di Matteotti – altri meno, per quanto il confino non fosse certo una vacanza, e neppure lo era la necessità di rifugiarsi all’estero. Dissentire costava, e non poco.
Nella presentazione di questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, non si riferisce forse a De Felice il presidente dell’Anppia (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), Spartaco Geppetti, quando parla del volume come di un <prezioso lavoro> per <conoscere la storia> e <liberarla dai condizionamenti interpretativi che puntano a sminuire le responsabilità del fascismo>. Probabilmente pensa a quella letteratura storiografica “alla Montanelli”, e non solo, che per molto tempo ha dominato il mercato, sostituita poi da altrettanta letteratura di segno radicalmente opposto. Entrambe non hanno aiutato la comprensione storica. Due eccessi speculari, fatalmente, si elidono a vicenda.
Grandi scavatori di archivi, Avagliano e Palmieri fanno bene il loro lavoro. Danno cioè conto del dissenso e di come si è sviluppato. Un approccio nuovo, che supera rari testi precedenti e affronta il tema a tutto tondo, sine ira ac studio, com’è loro costume. Estendono, infatti, la dimensione temporale della ricerca documentaria, spesso circoscritta al periodo della Resistenza. Il libro certifica – al di là nei noti falliti attentati – come il dissenso abbia attraversato quasi per intero il dominio mussoliniano, almeno da quando, dopo il delitto Matteotti, il fascismo assunse sempre più il carattere di regime, trasformando dall’interno – incisivamente ma parzialmente – il sistema politico-istituzionale dell’Italia liberale, che pure aveva consentito a Mussolini di “salire” al governo.
Il dissenso è alimentato dalle motivazioni più varie. E si manifesta in forme altrettanto diversificate. Tra i dissidenti, a parte gli antifascisti militanti, <c’è chi è sostenuto da antiche fedeltà ideali>, chi ha <abbandonato l’attività politica attiva ma di cui è nota la contrarietà al regime>, chi <non ha una cultura politica e una convinzione ideale ben connotata ma è istintivamente insofferente verso il regime>. Il ventaglio delle posizioni è molto ampio, e talvolta dipende anche dal disagio economico e sociale.
Il dissenso è tuttavia largamente sotterraneo. Si manifesta un po’ “alla Pasquino”. Con <barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi>, spesso in case private, ma non solo. Esiste anche un <antifascismo da osteria>, e poi un <antifascismo solitario, quasi esistenziale, un po’ romantico e un po’ disperato, fatto di gesti individuali>, in qualche caso eroici. Comunque pericoloso, perché il controllo poliziesco è occhiuto e la delazione frequente. Anche le ironie e i sarcasmi possono essere intercettati, e spesso lo sono. E oggetto di sberleffi sono non solo i gerarchi, ma lo stesso Mussolini. Tra le tante gustose citazioni, scegliamo questa: <Quel signore ch’ha sul petto / croci nastri e insegne annesse, / fa davvero un grand’effetto, / ma dev’essere un signore / senza meriti e valore: / se n’avesse, / non farebbe con quell’aria / tanta mostra campionaria!> (p. 221). Non furono però solo barzellette. Il volume non manca di evidenziare il complesso, persino contraddittorio, clima dell’epoca. Dissenso, ma in fondo non troppo. Talvolta persino marginalissimo, come accadde con il varo delle leggi antiebraiche del 1938.
Mancano un po’, nel libro, probabilmente per la scelta di circoscrivere il tema dell’indagine, il dissenso interno al fascismo, la dialettica sul “terzo tempo” che avrebbe dovuto completare la “rivoluzione”, la crescente insofferenza dei giovani nati poco prima o dopo il 1922. Per un solo esempio, Attilio Tamaro scrive nel suo diario, il 7 ottobre 1936, quando il consenso sembra essere all’apice, dopo la proclamazione dell’Impero, che i giovani <Non sono contrari al Regime, anzi gli appartengono in tutto: vogliono invece dargli un nuovo contenuto, sono più indipendenti e più scanzonati di fronte alle gerarchie. Non amano la demagogia delle parole, né l’arida disciplina del partito, né il caporalismo, che si vuol loro imporre. Starace è la loro bestia nera. Alcuni mesi fa, gli studenti di Padova organizzarono il funerale del Segretario per le vie della città: un gran corteo preceduto da tamburi che battevano a morto e sul carro funebre un pupazzo col cartellino “questo è Starace”. Clamorosi sfoghi di collera del Segretario del Partito, rappresaglie, arresti: ma Mussolini ordinò di sospendere ogni persecuzione e di lasciar cadere la cosa. Ma forse non colse l’ammonimento dei giovani. Gli studenti sono critici anche nel giudicare Mussolini: parlano di lui con grande franchezza, senza perdere la fiducia che gli devono, ma anche senza approvare tutto> (Attilio Tamaro: il diario di un italiano, pp. 433-434).
Quei giovani erano – come pensa Tamaro – fascisti critici? Oppure dissidenti in embrione? Chissà…
M. Avagliano, M. Palmieri, Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussoli 1925-1943, il Mulino, Bologna 2022.