Rachele Ferrario ne è convinta. Umberto Boccioni avrebbe dipinto La città che sale anche se non avesse incontrato Filippo Tommaso Marinetti. Dunque <Non è il futurismo che fa Boccioni; è Boccioni che fa il futurismo>. Può sembrare un ardito paradosso. Eppure è la conclusione a cui fatalmente si giunge dopo aver gustato le pagine di questo Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo, appena uscito per le Scie Mondadori. Non si tratta dunque del frutto dell’innamoramento del biografo per il biografato. Può capitare, ma il libro di Rachele Ferrario non è “a tesi”. È, come sempre dovrebbe essere, la sintesi di un grande lavoro di scavo negli archivi, nelle opere, nella vita di Boccioni, e non solo.
Perché Rachele Ferrario è una critica e storica dell’arte, ma, letto questo Boccioni, sarebbe riduttivo costringerla in queste definizioni accademiche. Il libro è qualcosa di più della storia di un artista e delle sue opere. È storia sociale, storia della cultura, storia del costume, e in fondo storia a tutto tondo dell’Italia e dell’Europa del primo Novecento, di quel periodo che per convenzione chiamiamo Belle époque. Questa biografia di Boccioni si stende sulla trama e sull’ordito di un’epoca. Epoca di grandi cambiamenti. L’Italia sta lasciando l’Ottocento e sta rincorrendo la modernità. In quell’Italia si affaccia un genio.
Di famiglia povera, nato per caso nel 1882 Reggio Calabria, ma profondamente romagnolo, Umberto Boccioni morirà nell’agosto del 1916. Muore a neppure 34 anni. Gli sono bastati per lasciare un segno nella storia. Sulla sua lapide è scritto: “Boccioni artista e soldato che alla Patria volontario sacrificò vita e gloria”.
Morirono in tanti, purtroppo. Mi piace ricordare un altro giovane intellettuale morto un anno prima sul Podgora, Renato Serra. Scrisse in Esame di coscienza di un letterato: <Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati; senza macchia e senza colpa>. Chissà se Boccioni avrebbe condiviso. Forse sì. Ma non ha potuto leggere queste righe di Serra, anch’egli romagnolo, pubblicate postume.
Interrogarsi su dove sarebbe potuta arrivare l’arte di Boccioni se non fosse morto così giovane sarebbe pura retorica. Non lo sappiamo. Non possiamo saperlo. Certo è stato figlio della sua epoca, anche nel rapporto con il futurismo, al di là dell’arte. Se si arruola volontario nella Grande Guerra è perché vive quella temperie. Il manifesto futurista di Marinetti recitava: <Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna>. E anche queste iperboli vanno comprese, più che giudicate.
Quella di Boccioni è stata la vita privata di un uomo sregolato, tormentato, una vita che tuttavia si riflette nella sua arte. Ci arriva da autodidatta, come molti. È un sovversivo, come giustamente evidenzia il sottotitolo del libro. Sovversivo non in senso politico, cioè sovvertitore dell’ordine costituito. Sovversivo in quanto uomo di avanguardia che vuole superare le convenzioni e gli schemi del passato, cioè dell’Ottocento. È affascinato dalla nuova società che sta nascendo, dalla modernità, dalla frenesia urbana, dalla rivoluzione industriale. Ha l’ansia di conoscere, di sperimentare. Privo di mezzi, quasi furiosamente è italiano ma cittadino del mondo. Vive a Roma, Padova, Venezia, Parigi, Milano. Viaggia in Russia, dove ha un figlio che non riconosce. Legatissimo alla madre, ha un rapporto irrisolto con le donne. L’amore giovanile e forse duraturo con Ines. I rapporti con Sibilla Aleramo, Margherita Sarfatti, Vittoria Colonna… È famelico, in ogni senso, in ogni ambito. Uno scrittore che pensa per immagini. Ma soprattutto pittore e scultore.
Per Boccioni, nota Rachele Ferrario, il mezzo è il messaggio. Prima crea, poi spiega. E arrivano i suoi capolavori, da La città che sale – <un grido di liberazione> – alle Forme uniche della continuità nello spazio. Quei capolavori che l’Italia del secondo dopoguerra non saprà trattenere per sé e finiscono in America. Accadde per insipienza. E anche perché l’Italia, sei anni dopo la sua morte, è stata fascista. <Sarebbe ipocrita negare – riflette Ferrario – che sulla straordinaria figura di Umberto Boccioni abbia gravato a lungo l’ombra del fascismo. Probabilmente sarebbe stato fascista; magari no. Ma che importanza ha? Un artista si giudica per le sue opere>. E le sue opere sono immortali, mentre il fascismo per fortuna non lo è stato.
Rachele Ferrario, Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo, Mondadori, Milano 2022
Qui il video della presentazione a Umbrialibri, Perugia, 28 ottobre 2022