Può sembrare curioso, ma io ancora leggo i giornali. È una deformazione professionale. Non tutti, ovviamente. Però ho un mio criterio, alterno. Non vado cercando conferme consolatorie del mio pensiero. Poi, da ipercritico, difficilmente mi riconosco totalmente in quello degli altri, fossero pure cari amici. Stamane stavo per comprare anche “la Repubblica”. Poi ci ha ripensato e ho preso “Domani”, diretto da Stefano Feltri. Non lo conosco, ma conosco il presidente della società editrice, Antonio Campo Dall’Orto. Per un paio d’anni fu direttore generale della Rai. Dovendo sollevarmi dal mio incarico non ebbe il coraggio di farmi una telefonata. Poi, un colloquio furtivo. Non me la presi più di tanto, in verità. Lo sapevo. Ero preparato. Ma c’è modo e modo di esercitare il potere. Mussolini “dimetteva” con un comunicato dell’agenzia Stefani. Comunque, e non è la prima volta, ho pagato il mio euro e 80 centesimi, contribuendo a garantirgli lo stipendio.
“Domani” ogni tanto pubblica qualcosa di interessante. Ma nell’ultimo numero di questo 2022 che si sta consumando, poteva andare meglio. È un giornale d’opinione, di sinistra. È un bene che esista. La democrazia è un valore e la libertà di stampa ne è la cartina di tornasole. Di quale sinistra non si capisce bene. Un po’ salottiera, direi. Certo un filo angosciata. In prima pagina il titolo principale è <I dieci giorni che hanno cancellato il centrosinistra>. <L’annus horribilis del Pd e dei suoi alleati…>, così il sommario nelle pagine interne. Sotto, in prima, Stefano Feltri spiega che <Il 2022 ci ha insegnato che la disuguaglianza è una scelta politica>. Sommario: <Il governo Meloni toglie ai poveri per dare ai ricchi>. Scontato. Banale. Eppure Feltri non riesce a criticare tutto. Ammette che <alcune riforme di welfare e gli interventi contro l’inflazione dimostrano che in Italia qualcosa si può fare>.
Toglie ai poveri per dare ai ricchi. Il contrario del Robin Hood principe dei ladri del buon vecchio Alexandre Dumas padre. Il governo Meloni sarebbe lo Sceriffo di Notthingam. Ci vuole fantasia, nel giornalismo.
Poi ho pensato alla realtà. A quelle agghiaccianti immagini delle migliaia di milanesi in fila alla mensa dell’Opera Pia Pane Quotidiano. Milanesi veri, non solo immigrati, senza tetto, barboni. Ognuno con la sua storia. La povertà è un caleidoscopio a mille facce. Ero a Milano, giorni fa. Una città in grande ripresa. Così mi hanno assicurato i tassisti. Anche parlare con i tassisti è una deformazione professionale. Sono la prima fonte di informazione sul sentire comune. Ricordo bene quando, nel giugno del 1993, andai a Milano per il Giornale Radio, per seguire le elezioni comunali. Che vincesse il leghista Marco Formentini non ci credeva nessuno, nella politica romana, sembrava un paradosso. Ma i tassisti ne erano sicuri. Formentini vinse, in quella strana e lunga notte, contro il buon Nando Dalla Chiesa. I tassisti ascoltano. E capiscono gli umori.
Dunque, in questa Milano in grande ripresa, la fila alla mensa dei poveri può sembrare una contraddizione. Io non l’ho vista. Ho visto solo il quadrilatero affollato e grandi luminarie natalizie. Ma ero un turista, non dovevo spiegare Milano. Il cui sindaco è Giuseppe Sala, non un seguace di Giorgia Meloni. Come il sindaco di Roma è Roberto Gualtieri, del Pd. E anche a Roma ci sono le file alle mense della Caritas, o della Comunità di Sant’Egidio. La povertà esiste. Una professionista milanese mi racconta di una sua amica che ha scelto di lasciare il suo lavoro e di dedicarsi alla gestione di un paio di piccoli appartamenti, non suoi, come Bed & Breakfast. Sembra facile, ma è durissima, e si sta pentendo. Rischia la mensa dei poveri. Non banalizzo. La povertà ha mille sfaccettature. Ma i sindaci possono esserne responsabili? Pensarlo sarebbe stupido. Dunque le code di Milano non sono colpa di Sala, e quelle di Roma non sono colpa di Gualtieri. E neppure della Meloni, che ha appena cominciato a governare.
Il problema è un po’ più vasto. I poveri sono aumentati, durante la pandemia. E poi ci si è messa la guerra russo-ucraina. L’unico modo per arginarla è una politica di sviluppo economico che crei posti di lavoro. Il cosiddetto reddito di cittadinanza, a parte le mega-truffe, è solo un misero palliativo, il keynesismo d’accatto di chi non ha letto Keynes. Ci vuole visione e coraggio. Non si fa in cinque minuti.
Mi rendo conto che per “Domani” è difficile da ammettere. Troppo complesso. Meglio vivere di battute. E di cliché. Perché oggi, “Domani”, perdonate il gioco di parole, apre in realtà non con la povertà, ma con un ricco editoriale del politologo Piero Ignazi. Titolo: <Meloni dimostra che la destra in Italia non sa essere liberale>. E giù la solita brodaglia sulla nostalgia, sui simboli, sulla <rivalutazione plateale del neofascismo>, sulle abiurie necessarie. Conosco Piero Ignazi. Da quel giorno del 1988 in cui mi chiese se fossi proprio io l’autore di una critica pubblica al nostalgismo. Dopo essersi occupato dei radicali, stava lavorando al libro “Il polo escluso. Profilo del Movimento sociale italiano”. Dunque è uno di quelli che sa. Qualcosa non l’aveva capita, in realtà, ma il libro era in sostanza veritiero. Quindi, su “Domani”, oggi, poteva dare il meglio, invece di scivolare nella retorica, nei luoghi comuni. Poi, se vogliamo parlare di cultura liberale, potremmo discutere molto sulle radici liberali di un PD frutto della somma di ex comunisti e di ex cattolici di sinistra. Da quelle parti il liberalismo – storicamente – non ha mai allignato. E lasciamo perdere il populismo di tipo latinoamericano del buon Conte.
Mentre Ignazi si dedica ai luoghi comuni, oggi “Il Corriere della Sera” pubblica l’ennesimo sondaggio. Se si votasse oggi, il partito del presidente del Consiglio prenderebbe il 31,7% dei voti. La coalizione di governo il 46,8. Il Pd è al 16,3, Conte al 17,6. Sommati – ammesso che si possa sommarli – fanno il 33,9. Non credo molto ai sondaggi. Sappiamo che ci vuole poco a precipitare dagli altari alla polvere. Lo dimostra Renzi, lo dimostra Grillo. Preferisco i tassisti. Poi, i sondaggi, non leniscono la povertà. Per provarci, ad aggredirla e sconfiggerla, per quanto sia umanamente possibile, ci vuole la politica seria, non le battute.
Certo, il politologo potrebbe obiettare che anche Hitler vinse le elezioni. Anche Trump, in verità. Matto, ma non Hitler. E, se nell’URSS si fosse votato liberamente, anche Stalin sarebbe stato largamente eletto. La democrazia è migliore di qualunque altra forma di governo. Imperfetta, ma migliore. Anche se gli elettori possono sbagliare, anche gravemente. Non hanno sempre ragione. Leggendo “Domani”, sembra che il diritto di voto debba essere limitato ai frequentatori di terrazze romane o salotti milanesi. Insomma, sbagliò Giolitti, nel 1912, a volere il suffragio universale (solo maschile, ricordiamo). Meglio quello per titoli e censo dell’Italia ottocentesca? A “Domani” l’ardua sentenza. Intanto, forse, la sinistra dovrebbe tornare a cercare di rappresentare i bisogni dei lavoratori. Consiglio gratuito. Secondo il sondaggio FDI oggi sarebbe votato dal 28% dei poveri. Il PD dall’8,9%.
Lo so, ho scritto una specie di sermone. Buon 2023 ai miei “ventitré” pazienti lettori, tanto per citare il buon Giovannino Guareschi.