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Rieccole? Le Province e la Costituzione miope

Gennaio 12, 20230

Rieccole. Le Province. Forse. Se possiamo considerare un segnale politico i disegni di legge trasversali presentati al Senato. Potrebbero essere solo iniziative “testimoniali”, senza futuro. Ma anche no. Il problema esiste. Depotenziate nel 2014 dalla legge Del Rio, con il referendum di Renzi del 2016 dovevano essere abolite, ma il referendum fallì. E le Province sono rimaste nel limbo delle istituzioni malfunzionanti. Al di là del fatto che ora i consigli provinciali sono frutto di elezioni di secondo livello tra i consigli comunali e non più frutto di elezione popolare diretta. Il ché, in democrazia, non suona benissimo. Penso che sarebbe stato un errore abolirle, ma certo nel limbo servono a poco. Peraltro la riforma del 2014 era frutto dell’ondata qualunquista contro i costi della politica, come la successiva riduzione del numero di deputati e senatori. Un problema decisamente marginale, rispetto alla funzionalità delle istituzioni di qualsiasi livello.

Le Province avevano competenze specifiche di rilievo per i territori. Competenze che potevano essere integralmente affidate alle Regioni. Ma, fatalmente, sarebbero stato necessario rispolverare qualcosa di simile alle antiche Delegazioni pontificie. Oppure riaccorpare i Comuni in Province enormi, com’era, ad esempio, quella di Roma prima della riforma del 1927. Di Roma faceva parte anche la mia Viterbo, già delegazione pontificia, poi solo circondario, che aveva i suoi rappresentanti nella giunta della vastissima provincia metropolitana della Capitale. Per esempio, nel 1923 il mio prozio Tommaso Petroselli era, appunto, “deputato provinciale” di Viterbo in quella giunta.

Si dirà che oggi ci sono le Città Metropolitane, che raggruppano i comuni della ex provincia. Non so quanto funzionino, onestamente. Al di là della retorica sui corpi intermedi, sulle autonomie, il problema dell’efficienza del governo dei territori esiste. Ed è antico, dalla Costituzione in poi. Con la sua lenta applicazione (le Regioni, per esempio, ma non solo) e le sue modifiche a strappi.

La Costituzione potrà anche essere definita “la più bel mondo”, ma anche questa è retorica. Più che di ritocchi, avrebbe bisogno di essere riscritta. Perché nacque in un momento particolare, subito dopo la guerra. Forse fu un miracolo riuscire a stenderla. Ma certo fu un compromesso tra forze politiche con una visione divergente del futuro. Lo storico Renzo De Felice, già nel 1992 – mentre la Prima Repubblica stava crollando – pensava che <La nostra Costituzione, nel momento storico in cui fu approvata aveva un suo significato e un suo valore. Probabilmente, nei suoi lineamenti essenziali, non avrebbe potuto essere diversa. Ma oggi non va più bene, e accomodarla non si può. Occorre una costituente che la rifaccia da cima a fondo>. Questo servirebbe.

D’altra parte, che non fosse nata benissimo, lo pensava anche Piero Calamandrei. «Secondo me – ammonì, nella seduta dell’Assemblea Costituente del 4 marzo 1947 – è un errore formulare gli articoli della Costituzione con lo sguardo fisso agli eventi vicini, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa Assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope». Non fu presbite ma <poco lungimirante>, secondo Calamandrei, perché peccò «di genericità, di oscurità, di sottintesi». Un intervento, quello del giurista, che troppo spesso viene richiamato occultando le critiche. Sarebbe da rileggere, integralmente. E procedere di conseguenza. 75 anni dopo.

 

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