Presto dimenticate, le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia meritano qualche riflessione a freddo. Dispiace che l’affluenza alle urne sia stata molto bassa. Ovviamente i bravi analisti hanno avanzato ipotesi di vario tipo. A mio modesto avviso le ragioni sono essenzialmente due. Una è la frammentazione delle date. Ormai da anni le regionali non sono un appuntamento nazionale capace di coinvolgere gli italiani. Teoricamente dovrebbero interessare molto gli elettori delle singole regioni. Ma evidentemente non è così e probabilmente non lo è mai stato.
Le regioni vengono percepite come gestori essenzialmente della sanità. Di questo si tratta, basta conoscere i bilanci. Molti si lamentano, ma spesso senza ragione. Qua e là situazioni critiche sono evidenti, quanto evidenti sono le eccellenze, che non riguardano solo il Nord. Nella gestione si può sempre migliorare, naturalmente, ma la questione è complessa e antica. Risale al trasferimento dei poteri e all’abolizione del Ministero, ridotto al ruolo di supervisore tecnico-scientifico. Ma è difficile che il cittadino percepisca come responsabile un assessore regionale di cui spesso non ricorda neppure in nome.
La seconda ragione riguarda la vicinanza delle regionali con le politiche d’inizio autunno. Elezioni, quelle sì, che hanno rappresentato una svolta netta rispetto ad anni di governi temporanei, percepiti come autoreferenziali, magari necessari ma tuttavia totalmente indipendenti dalla volontà dei cittadini. È come se il voto di settembre li abbia appagati. Il centrodestra ha vinto. Il governo guidato da Giorgia Meloni governa, affrontando problemi immensi, lasciti di una legislatura trascorsa all’insegna della maionese impazzita. È presto per criticarlo, il governo attuale, per dichiararsi insoddisfatti. Dunque gli elettori di Lazio e Lombardia hanno pensato che il risultato non sarebbe cambiato, che era scontato. Non solo gli elettori del centrodestra, ma anche quelli del Pd e dei Cinquestelle.
Il problema non riguarda la coalizione di governo. Può essere dispiaciuta che pochi siano andati a votare. Ma il fenomeno non è di ieri. Forse un’inversione di tendenza potrà verificarsi solo quando – probabilmente tra un lustro – lo scontro elettorale si manifesterà chiaramente tra due programmi politici. Quello della maggioranza uscente, che sarà giudicata, e quello di un’opposizione capace di proporre qualcosa di diverso, chiaramente percepibile come migliore.
Per ora non se ne vede traccia. La sinistra italiana sembra avvolta nella nebbia. Le primarie del Pd interessano forse i suoi militanti. Ma che gli italiani in generale se ne stiano preoccupando è una pia illusione di qualche cronista politico. In questo senso l’alta astensione nelle regionali è una cartina di tornasole. Se gli elettori “vincenti” di settembre potevano prenderle sottogamba, l’ansia di rivincita dei perdenti poteva in fondo mobilitarli e dare un segnale. Una mobilitazione poteva esserci e non c’è stata. Anzi, il contrario. Stordita dalla sconfitta autunnale, la classe dirigente del Pd non è stata in grado di mobilitare nessuno. Su quali basi, poi? La campagna elettorale dell’estate scorsa è stata impostata, come nel passato, sulla demonizzazione dell’avversario. Il diavolo era alle porte. Si rischiava la libertà, la contrazione dei diritti, la rottura con l’Europa, la catastrofe. E in qualche misura questi sembrano essere gli unici argomenti in campo. Forse soprattutto nel mondo dei cosiddetti “intellettuali”. Abituati a rastrellare prebende e posizioni in un circolo chiuso, contestano aprioristicamente e senza averne titolo la presunta minore capacità di potenziali concorrenti.
Naturalmente è possibile che arrivi al momento dell’insoddisfazione. Accade. Si spera sempre che un governo possegga la bacchetta magica con la quale accontentare tutti. Ma ovviamente quella bacchetta non esiste in natura. Per ora, sia sul piano delle relazioni internazionali e intra-europee, sia sul nodo energetico, il governo ha fatto quel che aveva promesso di fare. In fondo anche sulla questione di quel 110% sull’edilizia che, dopo averlo varato, anche Draghi aveva ben capito che stava drogando il settore e creando una bolla finanziaria. Mettere un punto e resettare il sistema è palesemente indispensabile. Scontate le proteste. L’opposizione fa il suo mestiere. Ma, anche in questo caso, è un’opposizione ritualistica, tanto per dire qualcosa. La sensazione è che gli italiani approvino.
Un altro esempio? Sembrava che la stretta sull’attività delle Ong stesse sconvolgendo il mondo. Eppure era una stretta logica quanto necessaria. Soccorrere i naufraghi è un obbligo morale. Supportare il mercato degli esseri umani no. Passato qualche mese, il dibattito sulla questione non sta animando neppure il dibattito interno alla sinistra stordita. Ammesso che un dibattito ci sia, al di là di quello sullo sfarinamento della “ditta”. In fondo le elezioni regionali non hanno fatto che certificare il suo fatale declino.