Che nascesse un’aspra polemica dalle affermazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa sull’attentato di via Rasella era inevitabile, scontato. A parte i politici e gli opinionisti, anche gli storici sono scesi in campo. D’altra parte la “versione” di La Russa è sbagliata. Che i soldati tedeschi di origine altoatesina del terzo battaglione del reggimento di polizia Bozen fossero innocui membri di una «banda musicale» è semplicemente falso. Erano impiegati nel controllo del territorio. Arrivarono a Roma nel febbraio del 1944, poco prima che Himmler decidesse di aggregare nelle SS tutti i reggimenti polizia militare. Non erano neppure «semipensionati». Al massimo avevano quarant’anni. Definirli in quel modo significa alterare la storia. La Russa ha fatto bene ad ammettere l’errore. Meglio avrebbe fatto a non scivolare su uno svarione.
Quel 23 marzo 1944 ricorreva il venticinquesimo anniversario della fondazione a Milano dei Fasci di combattimento e nella Roma formalmente parte della RSI, ma occupata dalle truppe tedesche e di fatto governata dalle autorità naziste, si temevano azioni partigiane. L’undicesima compagnia del battaglione Bozen anche quel giorno pattugliava le strade, compresa quella via Rasella dove, per anni, Mussolini aveva abitato, prima di trasferirsi a Villa Torlonia, in un appartamento offertogli dal presidente del Senato Tommaso Tittoni, proprietario del palazzo di famiglia.
Tra gli storici chiamati in causa, anche il tedesco Lutz Klinkhammer, vicedirettore dell’Istituto Storico Germanico di Roma, autore peraltro del documentato e pregevole L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945 (Bollati Boringhieri, 1993). Intervistato da Simonetta Fiori per “la Repubblica” (“Erano soldati appartenenti alle SS. Ecco la verità sulla Bozen”, 1 aprile 2023), Klinkhammer spiega la genesi e le funzioni del Bozen, in altri contesti, lasciandosi andare anche a qualche ovvietà. Per esempio dicendo che nel controllo del territorio «era implicita una funzione repressiva». Una missione di quel tipo non può che essere, contestualmente, di deterrenza, prevenzione e repressione. Ma ricorda correttamente anche che i soldati erano altoatesini, anche di lingua ladina, coscritti non solo tra coloro che, nel 1939, avevano opzionato per il Reich hitleriano. L’Alto Adige e il Bellunese, dall’ottobre 1943, erano diventati una provincia tedesca. Gli ufficiali erano tedeschi del Nord, che «consideravano gli altoatesini alla stregua dei meridionali». Insomma, nella sostanza, erano per lo più inconsapevoli montanari, vittime di un clima storico-politico più grande di loro. I sopravvissuti dell’undicesima compagnia non vollero partecipare alla strage delle Ardeatine. Ma erano soldati del Reich. Anche di loro si può avere pietà, come dei passanti italiani uccisi dall’attentato e dalla reazione armata dei tedeschi.
Klinkhammer non ha però avuto modo di ricordare quanti dubbi e polemiche l’azione di via Rasella abbia suscitato nella Resistenza romana. Sulla sua utilità/inutilità “militare” si è discusso per anni. E i pareri contrari non furono pochi. Nel contesto della lotta contro gli occupanti tedeschi e i militi della Rsi, l’attentato era tuttavia legittimo, come chiarito a posteriori in sede giudiziaria. Ma fu una pagina oscura della guerra partigiana, perché una bestiale rappresaglia tedesca era scontata. Qualcuno sperò che provocasse una insurrezione popolare, che non ci fu.
Klinkhammer ha invece avuto modo di criticare la “vulgata” sul carattere inoffensivo di quei soldati-poliziotti. «È una vulgata – sostiene – non solo di radice neofascista. Nacque subito dopo la fine della guerra». E per dimostrarlo chiama in causa il diplomatico e storico triestino Attilio Tamaro: «Mi viene in mente una serie di fascicoletti scritti nel 1948 da Attilio Tamaro. L’autore era un monarchico che non aveva ben digerito la Repubblica. Nel capitolo dedicato all’attentato di via Rasella si legge che “l’azione dei partigiani era inumana in quanto distruggeva la vita di soldati non belligeranti, addetti al servizio d’ordine pubblico perché inadatti alla guerra. Soldati che non avevano alcuna responsabilità, che erano giunti a Roma da poco tempo e che non appartenevano alle SS. Non potevano quindi essere, come pretendevano i comunisti, i fucilatori di centinaia di ‘patrioti’ italiani o gli autori delle torture di via Tasso. Erano tutto ciò che di meno pericoloso di potesse trovare nell’esercito tedesco». Per Klinkhammer questa sarebbe «Mitografia pura», mentre «i documenti raccontano tutta un’altra storia».
Per la precisione documentale invocata dallo storico, è bene dire che quei fascicoletti erano parte dell’opera di Tamaro Due anni di storia 1943-1945, pubblicata, come si usava all’epoca, prima in fascicoli quindicinali, poi in due volumi, dall’editore Tosi, nel 1948-1949. Ma questo è solo un dettaglio. Non è un dettaglio definire Tamaro come un «monarchico che non aveva ben digerito la Repubblica». Quale “Repubblica”? Quella di Mussolini? Quella democratica del 1946? Forse era meglio chiarire. Perché i percorsi biografici hanno un senso, sotto il profilo storiografico.
Tamaro (1884-1956) è stato, in verità, qualcosa di più. Protagonista dell’irredentismo giuliano, giornalista, storico, volontario nella Grande Guerra, nazionalista, fascista dall’agosto del 1922, informatore degli Esteri da Vienna e dai Balcani, console ad Amburgo, ministro plenipotenziario prima in Finlandia e poi in Svizzera. Nel maggio del 1943, accusato di aver protetto l’industriale e finanziere ebreo Camillo Castiglioni, fu espulso dal PNF e richiamato da Berna. Si rifiutò di aderire alla RSI. Definirà Mussolini «il farneticante di lassù». A Roma senza incarichi, tenta di sostenere l’istituzione monarchica, pur non stimando Vittorio Emanuele III, ma, soprattutto, si impegnerà per il ritorno di Trieste all’Italia, mentre pubblicava Due anni di storia e, dopo, i tre volumi di Vent’anni di storia 1922-1943 (Tiber, 1953-1954). Renzo De Felice lo definirà «fonte indubbiamente bene informata» (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi 1988, V ed., p. 248). Insomma, non fu un banale autore di “fascicoletti” semi-nostalgici della monarchia e del regime, come Klinkhammer sembra lasciar intendere.
Se a dimostrarlo non bastano i suoi volumi dell’immediato dopoguerra – con i limiti derivanti dalla non disponibilità degli archivi – forse è ormai il caso di andare alla fonte originale, da più di vent’anni disponibile per gli storici, cioè il suo diario privato, non più inedito, che ho avuto l’opportunità di pubblicare.
Dunque, torniamo ai documenti. In questo caso una testimonianza, frutto del colloquio privato di Tamaro con il diplomatico Camillo Giuriati, che gli riferisce un suo colloquio con il console generale tedesco durante l’occupazione, Eitel Friedrich Moellhausen (nel 1948 pubblicherà La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943-2 maggio 1945). L’appunto di Tamaro è del 30 marzo 1944, quando tutto era accaduto. Qualche nome risulta errato. Qualche informazione – tra quelle raccolte in quella data – è stata smentita sul piano storiografico. Non è invece smentibile il clima della Roma di quei giorni. Sia per i fatti sia per i giudizi dell’autore, duri sugli attentatori di via Rasella. Forse ancor più duri sui responsabili della strage delle Ardeatine, tedeschi e italiani. Leggendo le sue pagine, un politico forse capirebbe che sarebbe opportuno lasciare la storia agli storici. E gli storici potrebbero magari ricordare quanto la loro materia di studio sia complessa e debba essere narrata nella sua complessità, senza sconti, per nessuno. Altrimenti si scade nella “mitologia”.
Della complessità fanno parte anche alcuni misteri sul criterio scelto da tedeschi e italiani per compilare l’elenco delle persone da uccidere alle Ardeatine. Per fare un esempio, nel rastrellamento in via Rasella fu catturato anche il collezionista d’arte Luigi Vittorio Fossati Bellani, che abitava a Palazzo Tittoni. Poi il suo nome fu espunto. Perché? Chi si adoperò per salvarlo? Peraltro, liberato, morirà d’infarto pochi giorni dopo, il 3 aprile. Altri nomi furono espunti? Scoprirlo non cambierebbe di una virgola il giudizio storico su una strage demoniaca. Ma sarebbe interessante per illuminare ulteriormente in quale contesto operarono i carnefici. La ricerca storiografica è, per sua natura, sempre in divenire.
“Crudele e disumana freddezza”: l’appunto di Attilio Tamaro
Moelhausen, nel deplorare il misfatto di via Rasella e le orride conseguenze, afferma di aver tentato invano d’impedire la celebrazione del 23 marzo a Roma, asserendo non essere luogo da cerimonie una città distante pochi chilometri dalla fronte e affamata. Intuisce che la rappresaglia è anche un errore politico senza eguali e ne attribuisce la responsabilità alle S.S., che agirebbero in tutta indipendenza e dal comando della città e dall’ambasciata. Cerca tuttavia di giustificare quanto è assolutamente ingiustificabile. A parte la mostruosità giuridica (siamo in pieno imperversare di mostruosità del genere) d’aver massacrato più di trecento non colpevoli della strage dei soldati senza prima nemmeno iniziare la ricerca dei delinquenti, hanno voluto mostrarci che per essi un tedesco vale dieci italiani? S’ingannano a fondo, e per noi varrebbe il contrario, se non fossimo tanto dimessi e paurosi di dirlo. Sono poi tanto sicuri che gli autori di quella strage sono italiani? No, perché, giusta un’informazione data dallo stesso Moelhausen a Giuriati, le prime tracce rilevate dall’istruttoria portano alla legazione iugoslava chiusa in Vaticano. L’attentato di via Rasella, vile in se stesso, come tutto ciò che è proditorio, perde importanza per l’opinione pubblica, già esasperata da tanti malanni, di fronte a quel bagno di sangue espiatorio ordinato con crudele e disumana freddezza. È una fatalità che i Tedeschi non abbiano altrettanta freddezza nel cervello e si lascino trascinare furiosamente dalla rabbia, creando l’irreparabile e aumentando il numero dei loro nemici, proprio quando dovrebbero sentire la necessità di accrescere a ogni costo, anche con rassegnazione e sacrifici morali, i loro amici. Hanno grandi qualità e sono veri soldati, ma manca a loro ogni senso di umanità appunto quando è più richiesto. Hörderlin diceva che non sono mai uomini. Gravati dal senso pesante che il sentirsi così grande massa dà a tutte le coscienze, per credersi forti hanno tuttavia bisogno di inebriarsi di orgoglio e di violenza, dando con naturale semplicità nell’eccesso. Né le tante vittorie della scienza, né la sapienza tecnica, né l’alto livello della vita li ha mutati, anzi neppure moderati. Tanto meno, in quanto dall’altra guerra si sentono circondati da un odio generale, che stimano di non aver meritato e li inasprisce nervosamente. Intanto anche da Roma il sangue invoca vendetta come in tutta l’Europa e diventa seme di libertà democratica.
Il caso particolare è reso più sinistro dalla sua tumultuaria ferocia. Hanno preso le vittime a casaccio dove le hanno trovate: nelle carceri di via Tasso, nel “terzo” o nel “sesto” o in non so quale altro dei paurosi bracci di Regina Coeli, a S. Gregorio e altrove: non soltanto comunisti, ma quanti per ragioni politiche erano imprigionati e inquisiti, i più probabilmente vittime di odiose denunce anonime e ingiustamente sospettati. Si fanno i nomi del segretario di legazione Grenet, mutilato di questa guerra. Dei generali Lordi, Fenulli, Mattei, Simoni (cinque medaglie al valore), dei colonnelli Talamo, Frignani, Montezemolo, Avoglio (grande Mutilato e d’altri che si sapevano arrestati: si dice anche Aldo Finzi, e i professori Canali, Gesmundo, Albertelli e Ginzburg e tanti altri, destinati a santificare col loro martirio le loro idee. Sarebbe stata distrutta nell’ecatombe un’intera famiglia, cioè sette uomini di tre generazioni. Rifiutano ancora di dare i nomi dei giustiziati ed è un altro delitto, poiché lasciano centinaia di famiglie nell’angosciosa incertezza. Voglio credere che il numero delle vittime sepolte nelle grotte ardeatine sia minore di quanto hanno detto: qualcuno sostiene invece che sia aumentato e che altre decine sieno state massacrate per essere morti due o tre dei soldati feriti. A Regina Coeli si sono viste scene strazianti di persone venute a cercare i loro cari e avvertite che non vi si trovavano più. Certamente dal lato politico i Tedeschi non potevano tradire i loro interessi in modo più spropositato, né offendere più profondamente l’anima italiana. L’odio che portano ai “traditori” li accieca.
Voci sempre più disonorevoli per la politica tedesca corrono sui “misteri” di via Tasso, dove le S.S. hanno le loro prigioni: si narra che gli arrestati ivi inquisiti vengano sottoposti a torture, abbiano le mani bruciacchiate, sieno frustati a sangue o trattati con stillicidii sul capo e con iniezioni debilitanti la volontà. Molto dev’essere vero. I Tedeschi si inabissano seguendo la logica, che i tradimenti devono essere scoperti e puniti. Un alone di odio e di orrore circonda la casa di via Tasso e i nomi di Dolmann e Kappler, comandanti delle S.S. e sanatici direttori di quel mortorio. I quali però devono anche disprezzarci, poiché hanno veduto la profonda abiezione della stampa romana, che s’è strisciata ai loro piedi, scrivendo per giustificare la rappresaglia, e la più laida bassezza di quei funzionari della polizia repubblicana, che, girando per le prigioni, hanno raccolto le vittime per il loro piombo.
Figura veramente rara per vigore d’animo e d’intelligenza – cioè del tipo che più manca in Italia – sembra sia stato il colonnello Montezemolo, benché dicano si sia fatto cogliere con una lista di nomi in tasca: il 10 settembre i Tedeschi volevano che il comando di Roma gli fornisse seimila ostaggi. Il colonnello Montezemolo, reggente provvisorio di quel comando, preparò un manifesto memorabile: “Romani – diceva – il comando germanico pretende la consegna di seimila ostaggi. Io mi presenterò domattina alle ore nove alla caserma Principe di Napoli: attendo gli altri 5999”. Appena i Tedeschi lo videro, capirono il latino e rinunciarono alla loro inumana pretesa. E in quel momento pensarono di aver finalmente trovato un uomo tra gli Italiani. […].
(In G.S. Rossi, Attilio Tamaro: il diario di un italiano (1911-1949), Rubbettino, 2021, pp. 820-821).
2 comments
Cesare Manfroni
Aprile 3, 2023 at 2:57 pm
Ottime , caro Gianni, le tue informazioni e le tue considerazioni . L’efferatdzza della rappresaglia non è giustificata e non é giustificabile . Sono mostruosità che la dicono lunga sulle “virtù” del genere umano !
Tutto ciò premesso e senza ricercare giustificazioni che non esistono ma solo per aggiungere qualche particolare alla narrazione :
– perché gli attentatori, uomini e donne, non di presentarono per cercare di evitare la strage ?
– i bombardsmenti a tappeto du civili , come a Dresda o a Hiroscima, non andrebbero ricordati con la stessa esecrazione ?
– i 40 martiri di Gubbio non sono paragonabili a quelli delle Ardestine e pertanto , come tante altre stragi , andrebbero ricordate con la stessa esacrzzione nazionale ?
– è la guerra che di per sè prevede le atrocità
– gli Stati attuali , nel bene e nel male , in gran parte sono la conseguenza – per quanto riguarda I confini e le forme di governo istituzionali – di guerre feroci e disumane o di rivoluzioni altrettanto disumane ! Valeva la pena di farle visti i costi in vite umane, in torture , in aberrazioni di ogni tipo ?
– sono passaggi necessari in vista di un mondo migliore?
NE ABBIAMO DI ARGOMENTI SU CUI CONFRONTARCI CON LA CULTURA DEL DUBBIO
Un forte abbraccio e grazie per le tue considerazioni e per gli stimoli a riflettere
Gianni Scipione Rossi
Aprile 3, 2023 at 3:11 pm
Caro Cesare, in realtà la rappresaglia non fu annunciata e non fu chiesto ai
agli attentatori di presentarsi. Neppure furono cercati. Per questo, al di là del numero superiore a 10 per 1, per la convenzione di Ginevra era illecita. Probabilmente non si sarebbero presentati, ovviamente.
La strage di Gubbio soffre di alcuni non detti. I tedeschi erano in ritirata. I due che spararono scesero dal monte contro la volontà dei partigiani locali. Spararono a due ufficiali medici che prendevano il caffè al bar.
La rappresaglia era legittima. Salvo il fatto che i morti non erano 2, ma solo 1. Il secondo lo dettero per morto ma mori solo molti,mesi dopo, per altro.
Dunque la rappresaglia non era legittima per 40 ma per 20.
Ovviamente tutto questo nella follia della guerra. Ce n’è da discutere…
Un abbraccio. Gianni