Quel giorno. 18 aprile 1973. Roma. Chiesa dei Sette Santi Fondatori. Piazza Salerno. Corteo interminabile. Annichilito. Dietro alle bare di Virgilio e Stefano Mattei. Io c’ero. In quel periodo ero uno strano pendolare, tra Asti e Roma. La notizia del rogo di Primavalle mi raggiunse in Piemonte. Saltai su un treno notturno per esserci. C’era dolore, rabbia, sconforto. In realtà non sapevamo che cosa altro fare oltre a essere lì. Celebrate le esequie, mentre si sfollava, dei motociclisti lanciarono delle bottiglie contro la folla. Qualcuno gridò “una bomba,una bomba!” Poteva essere una strage.
Non posso dimenticare neppure che pochi giorni prima, a Milano, l’agente di polizia Antonio Marino, fu ucciso da un’ordigno esplosivo lanciato da estremisti di destra, denunciati dalla dirigenza milanese del MSI. Non ci potevo credere. Per me Polizia e Carabinieri erano lo Stato. Lo Stato di tutti. Ma per il mio modo di intendere la destra lo Stato era sacro, e chi lo difendava in divisa lo erano altrettanto.
Ricordo tutto di quel giorno, di quei giorni. Ricordo gli infami depistaggi per proteggere quelli di Potere Operaio che appiccarono il fuoco nella casa del segretario di una sezione missina in un quartiere ultrapopolare. E loro erano dei borghesi, come me. Ricordo gli appelli degli “intellettuali” a difesa dei terroristi.
Oggi, mezzo secolo dopo, preferirei non ricordare. Quegli anni, che saranno definiti di piombo, sono stati difficili, pessimi, anche per chi come me non aveva ancora vent’anni e un futuro davanti. Ma avrebbe potuto non averlo. Che Mario Capanna ancora sia convinto che siano stati “formidabili” mi deprime. Comunque, ripensandoci, c’è il rischio di cedere alle emozioni.
Quegli anni vanno affidati alla storia. Perché la storia non può e non deve essere cancellata. E dovrebbe essere raccontata tutta e spiegata correttamente alle nuove generazioni. Perché quel clima non torni, mai. Qualcuno vorrebbe. Ma mi pare che questo qualcuno – di destra e di sinistra – sia parte di un minoranza marginale quanto folle, che non incide nel sentire comune.
Apprezzo dunque le parole di Giampaolo Mattei, il fratellino superstite che aveva solo quattro anni: “Più che il ricordo, è fondamentale la memoria e ormai la storia. Dopo 50 anni cominciamo a parlare di storia. La memoria è importante nel momento in cui non c’è stato, non solo per la tragedia di Primavalle ma per gli anni di Piombo, un iter giudiziario per nessuno che sia stato idoneo per gli accadimenti”.
Sono d’accordo. Della memoria facciamo storia e cultura. Non altro.
Per questo apprezzo anche il messaggio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni. È giovane. Quel giorno non poteva esserci. Dunque può essere più lucida di chi c’era. Io non posso dimenticare quei volti, quelle lacrime. Lei è figlia di un’altra Italia, con tutti i suoi problemi, ma diversa. Il suo messaggio del cinquantenario di quel rogo è esattamente quello che serve, mezzo secolo dopo. Eccolo:
“Erano gli anni dell’odio. Sì, erano gli anni nei quali l’avversario politico era un nemico da abbattere, erano gli anni dei cattivi maestri sempre pronti a giustificare anche il più orrendo dei crimini o a costruire false verità per coprire i responsabili, erano gli anni delle fazioni contrapposte e della delegittimazione reciproca. Il popolo italiano ha saputo superare quegli anni così duri. Non lo ha fatto senza difficoltà. Le cicatrici delle profonde ferite subite ne sono il segno concreto e, spesso, tornano a far male. Non possiamo cancellare la storia o chiedere alle famiglie delle vittime di dimenticare ciò che è successo. Non possiamo restituire la vita ai troppi giovani che l’hanno sacrificata a un’ingiusta violenza. Quello che possiamo fare oggi è tenere viva la memoria di quanto accaduto, per evitare il pericolo di ricadute e condurre l’Italia e il nostro popolo verso una piena e vera pacificazione nazionale. […] È l’obiettivo che mi auguro tutte le forze politiche, le Istituzioni, le agenzie educative e la società vogliano porsi per trasmettere alle nuove generazioni un messaggio di rispetto e tolleranza. Perché nel confronto politico non ci siano più nemici da abbattere o da distruggere, ma soltanto avversari, con i quali confrontarsi civilmente e nel riconoscimento reciproco”.
Più di questo non si può dire.
Ripresi un treno. Non finì lì. Gli anni di piombo non furono un gioco. L’unico modo per rendere omaggio alle vittime – tutte – è studiarli, senza retorica.
6 comments
Pier Roberto Merani
Aprile 17, 2023 at 12:11 pm
Lucida obbiettività!
Gianni Scipione Rossi
Aprile 17, 2023 at 12:43 pm
Grazie
Fabio Maria Santucci
Aprile 17, 2023 at 3:38 pm
Bravissimo.
Gianni Scipione Rossi
Aprile 17, 2023 at 8:47 pm
Grazie. Ciao
Gianni Scipione Rossi
Aprile 17, 2023 at 8:47 pm
Grazie. Ciao
Gianni Scipione Rossi
Aprile 17, 2023 at 8:47 pm
Grazie. Ciao