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Zaki libero, ma…

Luglio 20, 20230

Dunque Patrick Zaki è libero. È stato condannato, ma il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi lo ha graziato. Avrebbe dovuto scontare un altro anno e più di carcere. Dunque bene. Evviva. Con tutta evidenza l’azione politico-diplomatica italiana è stata efficace. Siamo contenti e possiamo girare pagina.

Magari ricordando che il trentaduenne Patrick Zaki, egiziano di religione copta, si è prima laureato in farmacia al Cairo e poi si è trasferito a Bologna per un master in letterature moderne comparate post coloniali (sic!). Un paio di settimane fa ha discusso, a distanza, la sua tesi su giornalismo, media e impegno pubblico. Bene. 110 e lode. Benissimo. Mi chiedo chi avrebbe avuto il coraggio di laurearlo con 108.

Comunque Zaki va apprezzato. È un giovane coraggioso. In Egitto è stato un attivista politico di opposizione. Per di più copto. Cioè appartenente a una minoranza che, per quanto ancestrale e nella media benestante, non se la passa benissimo. Chiunque sia stato al Cairo e non si sia limitato ad ammirare le piramidi, sa che spesso le chiese copte sono difese dalle forze armate. Non si può dire però che la minoranza copta, e in genere cristiana, sia perseguitata in un paese islamico sì, ma non radicale. Non radicale perché essenzialmente governato da militari di cultura nasseriana, laici dialoganti con l’Occidente. Una democrazia compiuta? Diciamo una democrazia autoritaria, che rende l’idea.

Ovviamente non sappiamo che cosa vorrà fare Zaki da grande. A occhio non il farmacista al Cairo o a Bologna. Già si vocifera di una candidatura per il Pd nelle Europee del prossimo anno. Tutto è possibile. Anche se Elly Schlein, per ora, si è limitata a manifestare soddisfazione per Zaki, accompagnandola con un “ora tocca a Regeni”. E molti commentatori hanno lasciato intendere che la trattativa che ha portato alla libertà di Zaki sottintende – oltre ad accordi palesi – un’intesa non dichiarata: Zaki graziato, nessuna verità su Regeni. Il che è possibile. Lo sapremo, forse, tra decenni. Ma, se fosse, rientrerebbe del realismo politico. È una regola basica. Do tu des.

Io spero che il governo insista per sapere la verità sulla morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Universita’ di Cambridge inviato al Cairo per fare una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto. Come se potessero esistere. Perché sia stato consigliato di fare una cosa del genere dall’Inghilterra ce lo devono ancora spiegare. Nessun professore degno di questo nome avrebbe dovuto mandare allo sbaraglio uno studente in un ambiente così pericoloso. Nessuno.

Quando il povero Giulio Regeni, il 25 gennaio 2016, vennero rapito e poi, il 3 febbraio, ritrovato cadavere, era in carica il governo a guida Pd, presieduto da Gentiloni. È da allora che si cerca la verità. Dei tre agenti egiziani presunti colpevoli, secondo gli inquirenti italiani, non si trova traccia. Presidente egiziano era al-Sisi. Ben che vada, sapremo qualcosa quando non sarà più presidente. Ma avrebbe avuto senso che il governo italiano ponesse la questione  di termini “non ci basta Zaki, cittadino egiziano, libero. Vogliamo anche i presunti assassini di Regeni. O tutto o niente”.

Le relazioni internazionali non funzionano così. Dispiace, dal lato umano, ma le cose vanno in altro modo. Da sempre. E così continueranno ad andare. Ricordiamo il caso dei fucilieri di Marina arrestati in India? Ci sono voluti 9 anni di trattative e l’arbitrato del tribunale internazionale dell’Aja.

Tutto ciò è eticamente inaccettabile? Si. Ma chiunque si candidasse alla guida di un Paese scambiando l’etica con la politica internazionale sarebbe pericoloso. Molto. Le regole sono immutabili. Un passo per volta. 

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