Roma. Esco per andare dal tabaccaio. Non solo per le sigarette. Anche per due pile, in verità. Capita. Posso andare a destra o a sinistra. Stavolta scelgo la sinistra. Da qualche parte avevo letto che dove c’era una banca – ormai per trovare uno sportello serve Google maps – avrebbero aperto un supermercato. Curioso, riflettevo. Perché a destra c’è un supermercato. Saranno trecento metri. E anche a sinistra, forse a cinquecento metri. Comunque, niente di male.
Niente di male neppure in questa piccola storia. Al posto della banca ora c’è un bel supermercato. Niente libretti di assegni (e chi li usa più?). Niente bancomat. Solo alimentari e prodotti per la casa. Meglio questi che le serrande abbassate. Ma, mentre mi avvicinavo, ho notato che c’era la fila. Una fila per entrare al supermercato non l’avevo mai vista. Almeno nel mio quartiere. Ma credo sia difficile trovarla anche al Tiburtino III, per dire. Non ci volevo credere. Ho attraversato la strada e ho chiesto al mio bar di fiducia che cosa stesse succedendo. “Dotto’ – mi dicono – doveva vede’ ieri com’era”. Ma ieri avevo scelto la destra. Quindi ero ignaro.
Stiamo parlando di un quartiere privilegiato di Roma. Dove abitano – ne sono consapevole – cittadini altrettanto privilegiati. Io sono uno di questi. Uno che fa parte – al minimo – di quello che un tempo si chiamava ceto medio. Fin da quando, in epoca umbertina, furono costruiti palazzi per ospitare i dipendenti dei ministeri della Roma capitale. Prima c’erano i prati della nobiltà nera. Tutto cambia, col tempo. Ma quel quartiere è rimasto il luogo della borghesia. Non più solo ministeriale. Che pure esiste ancora. Dei professionisti. Dei commercianti. Dei piccoli e grandi imprenditori. La borghesia, insomma. Della quale sono consapevole e felice di far parte. Perché per far parte di quel ceto devi aver lavorato sodo. Devi credere in certi valori. Il privilegio non si eredita, si conquista. Se lo hai ereditato e non ci credi, basta un generazione per tornare indietro.
Nell’Italia del Novecento funzionava l’ascensore sociale. Che è però un’arma a doppio taglio. Si sale. Si scende. Salire costa fatica. Scendere è un attimo. Da tempo quell’ascensore si è bloccato. Non funziona più. È troppo difficile salire. Resta facilissimo scendere. Il ceto medio è formato da persone che credono di aver fatto abbastanza per raggiungere la tranquillità e di poter trasferire ai figli parte del frutto delle loro fatiche, perché possano vivere con meno preoccupazioni.
Quella fila al supermercato mi ha fatto riflettere. L’ho osservata. Molte persone anziane, anche più di me. Nonni con i nipotini. Signore e signori ben vestiti. Qualche collaboratrice domestica, ovviamente non di origine italiana: filippine, indiane, cingalesi, vietnamite. Donne – spesso infermiere diplomate – che si prendono cura del nostro mondo di vecchi, che ha fatto pochi figli e chissà dove questi figli sono a loro volta emigrati.
Prendere cura. Questo è il problema di oggi e di un futuro non troppo lontano. Il ceto medio aveva chi si prendeva cura. Familiari. Fedeli collaboratori – regolarmente retribuiti, s’intende – che oggi è difficile trovare e, comunque, appena possono, cercano nuovi lidi, nuovi orizzonti, dove ancora funzioni l’ascensore sociale. Ed è giusto così. La ruota gira.
Nel mio quartiere del privilegio, quei vecchi in fila al supermercato – vestiti con grande dignità borghese – credo siano andati per capire se convenga più del concorrente a destra. So perfettamente che il ceto medio – anche se ancora non si percepisce da lontano – stenta a mantenere il livello raggiunto con fatica quaranta, cinquanta anni fa. Ha imboccato la strada del declino. Figli ancora da aiutare. Prezzi elevati. Non è povero, no. I poveri sono altri ed esistono. Sono tanti. Anche loro vittima di un ascensore sociale bloccato. Di stipendi da fame, se vivi in una grande città. La crisi demografica non dipende solo dalla cultura di questo tempo incerto. Dipende da retribuzioni incompatibili col costo della vita. La grande battaglia sindacale del 1969 contro le cosiddette gabbie salariali fu una follia. Fare il maestro a Milano o a Villa San Giovanni in Tuscia non è la stessa cosa.
Del nuovo supermercato ha parlato la stampa. Perché è il quarto della Esselunga che apre a Roma. Questione antica. Per decenni i Capriotti hanno lamentato di essere ostacolati nell‘espansione verso sud di una catena fondata a nord. Avevano ragione. A opporsi erano le catene “cooperative”, con il loro retroterra politico. Ben venga la libertà d’impresa, dunque. Ben venga la concorrenza. Ben vengano nuovi posti di lavoro. A destra avrò il supermercato Tigre. A sinistra l’Esselunga. Male non fa. Resta l’amara impressione suscitata da quella fila. Quella fila di vecchi impoveriti, mentre in parallelo non ci sono più giovani messi in condizione di costituire un nuovo ceto medio.
Esagero? Non credo. Comunque domani provo a mettermi in fila. Magari trovo una straordinaria offerta speciale.