Dove va l’America? Lo sapremo tra 8 mesi e 21 giorni. Manca tempo, ma in realtà non troppo tempo. Il nuovo presidente degli Stati Uniti sarà eletto martedì 5 novembre. Come sempre. Dobbiamo preoccuparcene? Direi di sì. Anche se nulla possiamo fare per influire sulle scelte degli elettori. Se qualcuno immagina che i circa 18 milioni di statunitensi di origine italiana scelgano sulla base dei nostri interessi si illude. E si illuderebbero i tedeschi se pensassero che i loro 46 milioni di discendenti si comporterebbero in modo diverso. Forse questo modo ragionare riguarda una parte dei neo-americani di prima o seconda generazione. Ma sono, credo, fenomeni marginali. Il legame con la Patria atavica è solo sentimentale. Avere un trisavolo di Làtera, per dire, non fa di un cittadino americano un mezzo cittadino. Non vale neppure, per fare un altro esempio, per gli argentini. Una volta, a Cartagena de Indias, incontrando un gruppo di turisti porteños, dopo le solite chiacchiere sulle origini, ebbi l’ingenuità di chiedere a una signora se si considerasse più italiana o più argentina. «Arghentina!», mi rispose indignata, come se l’avessi offesa dubitando. Degli avi di Potenza Picena non gliene importava più nulla. Come non importa nulla della Germania a un caro amico di lontanissime origini tedesche.
Di dove stia andando l’America, a prescindere dagli italo-americani, ci importa, e non poco. Perché noi possiamo anche auspicare che un giorno l’Unione Europea si evolva in un soggetto politico capace di trattare paritariamente con le altre potenze mondiali. Ma, più passa il tempo, più il sogno sembra allontanarsi. Al di là della moneta comune – che ci ha penalizzato come italiani ma al tempo stesso ci ha salvati da un non improbabile default – la percezione che abbiamo dell’Unione Europea è solo di una sovrastruttura debole, che redistribuisce malamente le risorse che affidiamo a una Commissione capace di produrre norme contrarie ai nostri interessi. Non è esattamente così, ma la percezione diffusa è questa. E non è solo la nostra. Basti pensare alla “rivolta dei trattori”, che sta attraversando tutti i paesi a vocazione agricola, in Francia con profili vandeani.
D’altra parte, semplificando, l’Unione Europea è questo: un grande potenza economica, priva di una sua politica estera e di proprie forze armate. In questi mesi di gravissima crisi mediorentale, ogni tanto mi sono chiesto di che cosa realmente si occupi Luigi Di Maio, che l’inutile Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell i Fonelles ha considerato “il candidato più adatto” per assumere l’incarico di Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico. Non è una battuta.
In assenza di un’Europa Nazione di là da venire, è fatale e giusto che l’Italia giochi con accortezza – come sta facendo – le sue carte sullo scacchiere internazionale. A tutto campo, consapevole tuttavia che non è immaginabile un suo ruolo totalmente autonomo da quello che definiamo “mondo Occidentale”. Sarebbe un errore politico-strategico imperdonabile. Si può e si deve parlare e trattare con chiunque, senza dimenticare la necessità di mantenere saldi i rapporti con l’area geopolitica di riferimento. Alla quale ci legano interessi comuni e, prima ancora, una cultura condivisa, a partire dalla scelta di vivere in un sistema democratico irreversibile. Meglio una democrazia per sua natura imperfetta piuttosto che in una qualunque forma di regime autoritario. In alcune fasi della sua storia l’America ha immaginato che la democrazia fosse esportabile. Un’illusione. Non è così. La democrazia può nascere solo dalla volontà di un popolo, non dal suggerimento di un altro popolo.
Come la penserà l’America dopo il 5 novembre? Possiamo realmente immaginarlo? Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in questi giorni, ha confermato che, la nostra politica estera non cambierà. Alleati, non sudditi. Ma è lecito interrogarsi su quale sarà l’America tra 8 mesi e 21 giorni. È però difficile fare previsioni. La Grande Potenza ci appare confusa. Come confusi sembrano essere gli stessi americani. E anche noi. Abbiamo amato l’America del Kennedy di «Ich bin ein Berliner» (1963). Abbiamo amato l’America del Reagan del «Mr. Gorbaciov, tear down this wall!» (1987). Kennedy democratico, Reagan repubblicano. Poco ci importava. Possiamo amare l’America di un Joe Biden che ogni giorno, tra una gaffe e l’altra, appare palesemente senescente? Possiamo amare l’America di un Donald Trump che, fino a qualche anno fa, gli stessi repubblicani avrebbero considerato solo un fanatico matto?
Allo stato, tuttavia, è difficile pensare che siano probabili da un lato la sconfitta di Trump nella corsa alla candidatura, quando a contrastarlo nelle primarie è rimasta solo Nikki Haley, dall’altro lato il ritiro di Biden, se i democratici non riescono a individuare un’alternativa credibile, mentre la vicepresidente Kamala Harris si fa avanti nonostante abbia dato scarsissime prove di sé. Da un lato il senescente, dunque, dall’altro l’isolazionista estremo, che ha trovato modo di attaccare anche la Nato mentre non si vede la fine della guerra di aggressione scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.
E qui torna in campo l’Europa, cioè noi. Perché Trump, nelle sue esternazioni da folle che guarda alla pancia dell’America profonda, ha toccato un tasto sensibile. La Nato, alleanza militare difensiva dell’Occidente, dovrebbe essere finanziata dai membri (ormai 31) con il 2% del proprio prodotto interno lordo. Solo 11 paesi sono in regola. L’Italia arranca intorno all’1,38%. Dunque la difesa comune ricade in gran parte sui contribuenti americani. L’ombrello, mentre falliva rapidamente negli anni Cinquanta l’idea di creare la CED, comunità europea di difesa, ha funzionato e ci ha garantito la libertà.
Che questo provochi un crescente malessere nell’elettorato statunitense, mentre anche il Pacifico si scalda, è comprensibile. Né possiamo dimenticare che il fenomeno dell’immigrazione irregolare non riguarda solo il Mediterraneo, ma anche gli Stati Uniti, con i crescenti flussi provenienti dall’America Latina, che si sommano a quelli africani della rotta atlantica, dalle coste subsahariane a quelle brasiliane, venezuelane e colombiane.
L’America è confusa. Non possiamo sapere quale direzione prenderà. Ma è nostro dovere prendere atto che una fase storica si sta archiviando. L’Europa non può continua a far finta di niente, a prescindere da chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Niente dura in eterno.