Dunque, ha riperso. Il sogno di Marine Le Pen è ri-svanito all’alba del secondo turno delle legislative. Lei commenta che la marea monta e vincerà la prossima volta, alla presidenziali del 2027. Sognare e’ sempre legittimo. Ma intanto ha perso. Clamorosamente, nonostante l’accordo con una quota di gollisti e l’assorbimento degli ex elettori di Zemmour. Perché? Penso che gli auguri di Putin siano stati il bacio della morte. Per certi versi incomprensibile. Ma ci sono ragioni più profonde nella sconfitta che apre alla politica francese una fase incerta, molto incerta. Il voto “contro” ha sconfitto Marine, ma una maggioranza politicamente coesa non esiste. Il leader dell’ultrasinistra Mélenchon chiede il governo, ma non ha i voti. A scrutinio terminato si saprà se i numeri li avrà una alleanza tra macroniani, socialisti, verdi e gollisti. In realtà la Francia rischia il caos. Le Pen ha perso, tutti gli altri non hanno vinto. Neppure Melenchon, con le sue truppe dichiaratamente filopalestinesi e antisemite. A parte Macron, che ha giocato bene le sue carte. Vedremo.
Resta la sconfitta di Marine. L’ennesima. Ho sempre pensato che fosse molto probabile. Dopo quella alle presidenziali del 2022 avevo scritto che <<a farla naufragare – pur aumentando i consensi – sia stata la sua promessa di far uscire la Francia dal comando integrato della Nato. Naturalmente – ha cercato di spiegare – non per sottrarla alla solidarietà atlantica, ma con l’obiettivo di costruire un <riavvicinamento strategico tra la Nato e la Russia>. E lo ha detto mentre l’aggressione russa all’Ucraina sta vivendo i suoi momenti più duri, più tragici>>. Non ha cambiato opinione. Alla vigilia di questo secondo turno ha ribadito la sua posizione, chiarendo che le armi che la Francia fornisce all’Ucraina non devono essere usate contro la Russia. E’ vero gli elettori votano essenzialmente sui programmi economici, ma ci sono dei limiti. La Francia “profonda” vuole, trasversalente, la riforma delle pensioni, assicurata da tutti i contendenti. Ma la stessa Francia profonda non credo voglia essere condizionata da Mosca.
Perché lo ha fatto?, mi chiedevo nell’aprile di due anni fa. <Probabilmente – mi rispondevo – non poteva farne a meno. E non per gli imbarazzanti finanziamenti bancari ottenuti via Mosca. O meglio, anche per questo, ma non solo. Qualcosa di più profondo deve aver influito. Qualcosa che attiene alla ambigua cultura che ha alimentato la destra radicale francese per decenni>. Non devo cambiare una riga di quel che scrissi. Lo ripropongo. Magari oggi si capisce meglio.
<Non basta cambiare nome da Front National a Rassemblement National. Non basta espellere il padre fondatore per cambiare pelle. Una pelle fascista? O neofascista? Non sono in realtà definizioni che si attaglino a Jean-Marie Le Pen. Fascista non lo è mai stato. Aveva 12 anni quando nacque la Repubblica di Vichy guidata dal maresciallo Pétain. Uno stato semi-sovrano che in senso proprio fascista non era, bensì necessariamente vassallo della Germania hitleriana, che occupava il Nord. Ma il giovane bretone Jean-Marie ne ha 26 quando, il 7 maggio del 1954, cade Dien Bien Phu. È il crollo dell’Indocina francese. Due anni dopo, l’ex combattente diventa il più giovane deputato all’Assemblea Nazionale, eletto nelle liste dell’“Unione e fraternità francese” di Pierre Poujade, una sorta di Guglielmo Giannini d’oltralpe. Come il qualunquismo, il poujadismo presto si sfarina. Ma in quel 1954 comincia la guerra d’Algeria, finita nel 1962 con l’indipendenza della colonia, e quindi con la sconfitta dell’Oas, l’Organisation de l’armée secrète, che tentò invano di contrastare la linea politica del “traditore” Charles de Gaulle, anche con il terrorismo.
7 maggio del 1954, 17 giugno 1962. Tra queste due date, tra queste due epocali sconfitte, è racchiusa la psicologia politica di Jean-Marie Le Pen. Sostanzialmente un nazionalpopulista, nostalgico dell’impero coloniale francese. Quel che accade dopo è cronaca minore. E non credo sia un paradosso definire così la lentissima ascesa del Front National, che quelle fantasie imperiali continua sempre a inseguire, pur riuscendo negli anni Ottanta – camminando su un binario parallelo – a intercettare il disagio di vaste categorie sociali – tra operai e piccola borghesia provinciale – preoccupate dall’immigrazione magrebina.
Quando l’ho incontrato – ai tempi di Les Français d’abord (1984) – Le Pen non mi ha fatto una grande impressione, a parte l’immobile occhio di vetro. Anzi, mi sembrò solo un cialtrone. Quanto alle idee era un nazionalista francese ipercritico dell’Europa (perché oscurava la Francia), iperliberista in economia, circondato da un’insalata mista di vecchi pétainisti, neopagani, giovani infatuati dagli intellos collaborazionisti e – paradossalmente – dai cattolici tradizionalisti preconciliari di Bernard Antony, anticomunista viscerale e non esente da pregiudizi antigiudaici, oltre che – ovviamente – anti-islamico.
Un fritto misto – o una bouillabaisse, se si preferisce – che si accalcava a Le Bourget per la Fête des Bleu-blanc-rouge, dove, tra fiumi di ostriche e carrettate di formaggi, potevi vedere la Francia “profonda”, oleografica, da cartolina, eppure viva. Dove si scopriva che quel popolo minuto era violentemente contrario all’immigrazione, ma non aveva alcuna preclusione verso i francesi di colore, perché erano più francesi dei francesi, e neppure loro volevano i magrebini.
Si dirà che Marine non c’entra con quella stagione. E anche che i figli – e le figlie – non devono pagare le colpe dei padri. È vero. Ma qual è la differenza tra quel mondo e il suo mondo, come proposta politica? Meno tasse, no allo jus soli – che è un concetto antico, ed è comunque in Francia temperato – sicurezza, aumento dei salari, pensione a sessant’anni. Insomma, il paese di Bengodi di Poujade. Poi la modifica della legge elettorale in senso proporzionale. Quanta nostalgia per l’odiato Mitterand che, se nel 1986 non avesse cinicamente abolito il maggioritario, avrebbe perso le legislative, e il Front National sarebbe defunto. E ancora, la guerra alle energie rinnovabili (tanto abbiamo il nucleare). Infine, ma innanzitutto, a prescindere, il “prima i francesi”, cioè Les Français d’abord.
Fior di politologi parigini sostengono che il Rassemblement National ha rotto con il fascismo e da tempo è solo una destra radicale, per di più percepita annacquata, grazie al più radicale Zemmour. Una destra identitaria e nazionalista, non fascista, ammette anche Marc Lazar. Ma fascista quella destra, in senso proprio, non è in realtà mai stata. A meno che non si voglia cadere nella trappola dell’Ur-fascismo di Umberto Eco, che però può funzionare per chiunque, persino per Idi Amin Dada.
Dunque? Dunque Marine aveva, questa volta, la possibilità teorica di essere eletta, visto il crollo gollista e la trasversalità del disagio diffuso che ha comunque saputo rappresentare. Dunque, per capire perché abbia perso, resta la Russia. O meglio, resta l’ingegnosa quanto azzardata trovata di rinnegare l’Alleanza Atlantica nell’illusione del <riavvicinamento strategico>. Un obiettivo importante, da “statista”. Lievemente fuori del tempo, mentre Finlandia e Svezia pensano di aderire e, secondo un sondaggio, persino il 56 per cento dei neutralissimi svizzeri comincia a pensare che forse sia il caso.
Se la Russia si avvicinasse alla Nato – come ha lasciato sperare ai tempi di Pratica di Mare – non si creerebbe un solido asse tra Mosca e Pechino, per quanto con Mosca in posizione subordinata, e cambierebbero gli equilibri politici ed economici mondiali, così come sono andati configurandosi con la globalizzazione e l’implosione dell’impero sovietico. Un ragionamento che aveva un senso, ma si rivelò fallace.
Non so che cosa ne abbiano pensato i vignaioli del Beaujolais, notoriamente esperti di geopolitica. Ma, mentre alla Sorbonne e a Sciences-Po gridavano “né Macron né Le Pen”, qualche francese deve aver riflettuto sulle proprie nostalgie imperiali, che poi solo francesi non sono. Ma quelle francesi sono forse più radicate nel sentire comune. Perché l’idea lepenista di fare della Francia un ponte verso l’oriente europeo ha un sapore molto retrò, molto novecentesco. Parigi, insomma, come grande potenza capace di trattare da pari a pari con Mosca. Un’illusione, un sogno, che Marine ha agitato senza ovviamente esplicitarlo. Contro l’idea di una Europa in prospettiva Nazione. Contro il protagonismo tedesco, nonostante l’asse franco-tedesco abbia per anni dominato l’Unione.
Posso sbagliare, ma io in Marine Le Pen vedo l’ombra di quel tragico corto circuito psicologico che ha oppresso Jean-Marie. Quel corto circuito nato non a Vichy, ma nella fatale vallata vietnamita di Dien Bien Phu. Dove il generale Giap umiliò i paracadutisti e i legionari francesi. Un cerchio tragico che si chiude nei vicoli di Algeri.
Sarebbe un bene per la Francia – e non solo – che con questa sconfitta si chiudesse anche l’epopea – se vogliamo chiamarla così – della dinastia Le Pen. D’altra parte, una Francia conservatrice esiste, come esiste una Francia progressista. Anche se entrambe un po’ confuse. Macron, al suo secondo mandato, ha raccolto anche e soprattutto il voto centrista e conservatore. Comunque il professorino non è amato. Come la prima volta ha vinto, in un certo senso, per mancanza di avversari. In prospettiva c’è spazio per nuove figure. Ed è auspicabile che, nei prossimi cinque anni, anche nel campo progressista nascano offerte politiche meno impotabili del populismo di sinistra alla Mélanchon.
Naturalmente Marine Le Pen, accettando la sconfitta subito dopo gli exit poll, ha promesso di continuare a lottare. Ma cinque anni sono lunghi, molto lunghi. E intanto c’e’ la guerra…>.
Ora ne mancano tre. Lunghi anch’essi.