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Nasrallah, lacrime e tigri di carta

Settembre 29, 20240

L’annunciatrice che ha avuto l’incombenza di annunciare da Beirut la morte di Hassan Nasrallah sul canale tv Al Mayadeen non ha resistito ed ha pianto in diretta. Chissà se era veramente commossa. Certo le è toccato un compito arduo. Perché Al Mayadeen è un canale di Hezbollah, con sede principale nella capitale libanese, che trasmette in arabo e in inglese. Avrebbe potuto non piangere? Ma tutto è strano in quell’angolo di mondo così vicino a noi. È anche strano che la conduttrice sia vestita all’occidentale, senza veli. Quei veli che per le donne iraniane sono obbligatori in pubblico, pena l’arresto da parte della “polizia morale”. Arresto se va bene. Se va male lapidazione e morte. Tutto molto strano, se consideriamo che Hezbollah è una organizzazione terroristica mussulmana sciita, finanziata e rifornita di armi dalla dittatura teocratica sciita iraniana.

Comunque la giornalista ha pianto. Ma il suo lacrimevole annuncio ha provocato scene di giubilo, non solo in Israele. Ma anche in Libano e in Siria. Nel nord del Libano, abitato da mussulmani sunniti. Ma anche nel Sud, dove Hezbollah ha la sua roccaforte. Da dove, da anni, vengono lanciati missili contro Israele. Centinaia. Migliaia. Anche quelli che hanno ucciso, sulle alture del Golan, ragazzini drusi che giocavano a calcio. E persino in Siria, per quando è stato possibile. La Siria governata dal dittatore Bashar al-Assad, peraltro appartenente alla minoranza religiosa alauita, che riuscì a sconfiggere nel 2011 la rivolta interna scatenata nel quadro delle cosiddette primavere arabe, grazie al sostegno politico-militare della Russia e dell’Iran, che fece scendere in campo le milizia di Hezbollah. La repressione provocò mezzo milioni di vittime tra i ribelli. Da allora la Siria, che nella guerra del Golfo, quando era governata dal padre Hafiz al-Asad, si era schierata con l’Occidente, è di fatto un colonia russo-iraniana.

Tutto è complesso in quel mondo. Ma le scene di giubilo per la morte di Hassan Nasrallah sembrano segnare una svolta in Medio Oriente. In Libano, soprattutto. Dove Hezbollah è nata nel 1982 con l’obiettivo dichiarato di distruggere Israele. Di fatto, dominando il Sud del paese, Hezbollah ha determinato la crisi dello Stato   multietnico e multireligioso a lungo considerato la Svizzera del Medio Oriente. Dove convivevano e convivono sunniti, drusi, cristiani maroniti, alauita, una minoranza di sciiti e, dopo la Guerra civile a Damasco, e centinaia di migliaia di profughi siriani. Quelle scene di giubilo dimostrano che i libanesi sono stanchi di vivere condizionati da Hezbollah, anche nei territori meridionali sotto il controllo militare dell’organizzazione.

Può sembrare un paradosso, ma la scelta strategica israeliana di combattere i nemici del Nord dopo aver fiaccato a Sud Hamas, sembra aver aperto una nuova fase nella storia libanese. Tre giorni di lutto per Hassan Nasrallah, decisi da governo di Beirut, naturalmente. In Iran la guida suprema Ali Khamenei ne ha dichiarati addirittura cinque, promettendo vendetta. L’aveva già fatto ad agosto, quando il capo di Hamas Ismail Haniyeh fu ucciso nel cuore di Teheran. Per ora, parole al vento.

Con l’uccisione di Nasrallah, Israele ha dimostrato in modo definitivo di avere saputo reagire allo shock del 7 ottobre 2023, quando Hamas riuscì a compiere la mattanza del rave party, 1200 uccisi e ancora più di cento ostaggi vivi nelle mani dell’organizzazione terroristica che controllava Gaza ed è finanziata, come Hezbollah, dall’Iran, pur essendo sunnita. Nella folle logica degli eredi di Ruhollah Khomeyni, due strumenti per stringere Israele in una tenaglia, fino alla sua estinzione. Il “piccolo Satana” era Israele per Khomeyni. Che voleva annientarlo. Invece Israele sa difendersi e sa reagire, senza preoccuparsi del crescente antisemitismo che riemerge anche in Occidente.

L’Iran, a parte le minacce di rito, entrerà direttamente in campo? Difficile, molto difficile. Non ne ha la forza politica, nonostante i legami con la Russia, e neppure militare. Non basterebbe inviare qualche migliaio di mujaheddin per rovesciare la situazione. Soprattutto perché l’appello di Teheran a una reazione globale degli Stati arabi e islamici è caduta nel vuoto. Al di là dei proclami, compresi quelli turchi, nessun paese dell’aerea ha preso reali iniziative contro Israele. Non l’Egitto, non la Giordania, non gli Stati del Golfo, che puntano alla trattativa, non l’Arabia Saudita, non l’Iraq, neppure la Siria, e persino l’ANP, che Hamas cacciò militarmente da Gaza, si limita a guardare. Qualche missile dai ribelli yemeniti, terzo braccio iraniano nell’area, non cambia la realtà.

Nonostante l’Onu, con la sua maggioranza palesemente anti israeliana, non di solitudine di Israele si può parlare, bensì di solitudine della teocrazia iraniana. Nel 1946 Mao Tse Tung (oggi traslitterato in Mao Zedond) coniò, in una intervista alla giornalista americana Anna Louise Strong, l’espressione “tigri di carta” per definire le potenze occidentali. “Tutti i reazionari – disse Mao, impegnato contro il Kuomintang – sono tigri di carta. Apparentemente sono terribili, ma in realtà non sono poi tanto potenti”. Forse la guida suprema Khamenei dovrebbe ricordarsi di Mao. Il grande leader comunista cinese sbagliava, riferendosi all’Occidente, di allora e di oggi. Ma in fondo che cosa c’è al mondo di più intrinsecamente reazionario di una dittatura teocratica?

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