START MAGAZINE (www.startmag.it), 13 ottobre 2024
Israele fra destra e sinistra
Un libro invita a riflettere sulla narrativa patriottica di destra e su quella tra antisionismo e antisemitismo di sinistra, ancor più pericolosa.
In questo sconvolgimento, lo sconcerto investe anche la destra italiana che da tempo, specie con il Governo meloniano, ha compiuto un rivolgimento copernicano, assumendo il ruolo di difensore degli ebrei e dello Stato di Israele rispetto al magmatico, confuso e insidioso mondo politico-culturale di sinistra che mescola istanze pro-pal, antisionismo talvolta estremista e soggiacente antisemitismo. Persino i quotidiani Gedi hanno dovuto ammettere la gravità del problema, a margine della manifestazione non autorizzata svoltasi a Roma, durante la quale sono stati feriti oltre 30 poliziotti.
Il tema viene affrontato in tre uscite saggistiche: “Occidente, noi e loro. Contro la resa a dittatori e islamisti” di Daniele Capezzone (Piemme), “La nuova caccia all’ebreo” di Pierluigi Battista (Liberilibri) e “Anche Israele, però. L’ombra lunga dell’antisemitismo” di Gianni Scipione Rossi (Intermedia Edizioni). Gli autori sono tre giornalisti in qualche modo “di destra”, anche se con storie piuttosto diverse: il primo è un ex segretario radicale e portavoce di Forza Italia, oggi direttore editoriale di Libero; il secondo è stato vice-direttore del Corriere della Sera ma non ha mai nascosto una certa benevolenza per la destra, anche per ragioni affettivo-famigliari, essendo figlio di un ex “repubblichino” stretto collaboratore di Giorgio Almirante.
Scipione Rossi, una vita passata in Rai a fare la “traversata nel deserto” con il ristretto manipolo dei giornalisti non omologati, durante la quale ha assunto anche cariche di rilievo, torna sul tema già affrontato oltre 20 anni fa in “La destra e gli ebrei” (Rubbettino), dove indicava con chiarezza per quali ragioni la destra dovrebbe solidarizzare con ebrei e israelianI. Al tempo, va detto, la corrente antisemita che ha sempre inquinato conservatori, moderati, nazionalisti e sovranisti, italiani e non, era decisamente più consistente. L’autore adesso riprende quelle considerazioni nel contesto dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas.
Rossi sostiene Tel Aviv “senza se e senza ma”, come suol dirsi, per motivi che spiega in alcune righe di carattere autobiografico: “Nel 1967 mi colpì la guerra dei sei giorni. Convinto che Israele fosse parte integrante e sostanziale del mio Occidente, tifavo, per così dire, per il piccolo stato aggredito. Mio padre era abbonato al settimanale Il Borghese, che ne sosteneva le ragioni”. Poco avanti l’autore ribadisce: “Moshe Dayan e Ben Gurion diventarono i miei miti”. L’ebraismo, è il senso del ricordo, ha un vigore eccezionale, affascina coloro che ritengono l’identità un elemento valoriale: è la faccia diritta della medaglia di cui l’antisemitismo è il pessimo rovescio, se gli ebrei e gli israeliani non fossero così riconoscibili, forse non sarebbero tanto odiati.
Motivi quindi anagrafici oltre che ideologici, utili a comprendere la posizione atlantista della destra governativa odierna. Giorgia Meloni ha dovuto affrontare un certo malcontento interno a Fratelli d’Italia, nel momento in cui ha scelto di condividere la posizione atlantista. E lo ha risolto proprio con l’escamotage del patriottismo, indicando nella difesa del proprio territorio compiuta da ucraini e israeliani quell’orgoglio identitario che affratella i patrioti di tutte le patrie e i nazionalisti di tutte le nazioni. Un esercizio retorico, persino un paradosso, almeno rispetto alla visione politicamente corretta secondo cui il nazionalismo sarebbe sempre e solo divisivo e conflittuale.
E comunque, se questo patriottismo di destra è in parte un artificio narrativo, ben più traballante è la contraddizione per cui la sinistra vorrebbe ancora godere di una sorta di immunità dall’accusa di antisemitismo, in quanto coperta dai valori antifascisti per principio traslativo (la tesi secondo la quale i progressisti sono eredi dei partigiani, la destra dei fascisti già alleati con i nazisti fautori dello sterminio). Il saggio di Rossi ricorda però che, nel dopoguerra, le cose sono andate molto diversamente: comunisti, contestatori, centri sociali, pacifisti si sono quasi sempre schierati in difesa di palestinesi, arabi e musulmani contro lo Stato ebraico.
Perno di questa contraddizione è la capziosa distinzione tra antisionismo e antisemitismo. Si accusano i coloni violenti e Netanyahu senza porsi il problema che dall’altra parte ci siano Hamas, Hezbollah e soprattutto l’Iran degli ayatollah, che ambisce a strappare ai sauditi la leadership islamica mondiale perseguendo esplicitamente (per fortuna più a parole che con le armi) l’obiettivo della cancellazione di Israele dalle cartografie analogiche e digitali. Una Umma confusa e rovente, per la quale dobbiamo ringraziare le sciagurate scelte compiute da USA e occidentali in Iran, Iraq e nell’Afghanistan dei talebani.
A prendere atto di queste contraddizioni della sinistra italiana sono pochi, coraggiosi esponenti tra i quali Rossi cita Daniele Nahum, consigliere comunale di Milano, che ha detto in modo adamantino: “Non voglio però girarci troppo intorno, nella mia decisione di lasciare il Partito democratico hanno pesato diverse ambiguità sulla politica estera ed il clima che si è prodotto in vari settori del mondo di sinistra dopo il 7 ottobre. Si è sdoganata, soprattutto all’interno dell’ala giovanile del Partito democratico, la parola genocidio […] un termine pericoloso, falso, inadeguato”.
“L’ombra lunga dell’antisemitismo” esprime bene la narrativa che da quel giorno accompagna la crisi mediorientale. Ferme restando le colpe di chi ha compiuto quell’attacco, la reazione di Tel Aviv è sproporzionata, inumana, sta mietendo troppe vittime, soprattutto troppe civili e innocenti, tra le quali moltissimi bambini; ed è motivata non solo da ragioni di sicurezza ma anche dall’esigenza del premier Netanyahu di distrarre l’opinione pubblica dalla propria debolezza politica. Non sfuggirà un’altra stretta analogia con l’Ucraina. Anche qui, quasi nessuno disconosce l’inammissibilità dell’aggressione russa e l’intangibilità dei confini nazionali e della sovranità territoriale. Ma molto spesso si pone quale attenuante la critica a Zelensky per il costo che la guerra fa ricadere sui paesi europei e della NATO e per i rischi del coinvolgimento in un conflitto tanto pericoloso da far percepire l’eco di una possibile guerra nucleare.
Nel caso di Israele, c’è un elemento in più, l’antisemitismo. Un pregiudizio che accompagna gli ebrei in modo che sembra ineliminabile, un po’ come con le persone di colore o con i meridionali, nazionali o mondiali. Nei confronti delle quali il rumore di fondo del razzismo è sempre percepibile, in forma di pregiudizio e talvolta purtroppo di persecuzione. Tutto questo discorso, dopo gli attacchi contro Unifil, trova un’ attualità ancor più drammatica e sconcertante.