Tutto cominciò quel giorno. Primavera 1969. Roma. Assemblea nel mio liceo. Gli aderenti al Movimento Studentesco vogliono occupare. Il liceo non ha una palestra. Per l’educazione fisica si andava altrove. L’aula di scienze era troppo piccola. L’assemblea si tiene all’aperto, nel piazzale posteriore all’edificio. Decido di intervenire. Sono contrario all’occupazione. Per quanti problemi ci fossero – i turni pomeridiani a settimane alterne, per esempio – cerco di sostenere che si doveva trattare col preside. Fermare le attività didattiche – pensavo – era inutile e dannoso. Sale un brusio. Poi un urlo: “fascista! fascista!” Diventa un boato: “fascista! fascista!” Grido anch’io, più forte che posso: “Il fascismo non c’entra niente. Ma se volete che io sia fascista, ebbene sì, come vi pare, sono fascista!” In cinque o sei mi sollevano. Mi portano a spalla fino al terzo piano. Tentano di lanciarmi nella tromba delle scale. Ci sarebbero riusciti se non fosse intervenuto un docente coraggioso.
È fatale che, leggendo Il tempo delle chiavi di Nicola Rao, a un ex studente della mia generazione si accapponi la pelle. Affiorano i ricordi di una stagione infame. Una stagione che avremmo preferito vivere come adolescenti felici. Non fu così. In quel tempo non ero neppure un giovane missino. Mi consideravo un liberale, un anticomunista. Anticomunista rimasi, diventando missino. Eppure ci chiamavano fascisti.
Affiorano i ricordi. Gli scontri fisici – non solo verbali – con gli avversari. A Roma e non solo. Ad Asti, per dire, quando un colpo di pistola fu sparato contro la sede dove tiravamo al ciclostile il nostro giornaletto. A Milano, dove eravamo saliti per seguire il comizio di Almirante per le elezioni del 1972. Ci aspettavano all’uscita della metro. O di nuovo a Roma, 14 febbraio 1975, elezioni universitarie. L’allora cronista del Corriere della Sera Antonio Padellaro registrò che <un dato rilevante, estremamente negativo di queste elezioni é costituito dalla violenza intimidatrice messa in atto da alcuni gruppi dell’ultrasinistra. Anche oggi all’Università di Roma si sono contate numerose aggressioni di studenti, quasi tutti di estrema destra>. E se ne sei stato vittima te lo ricordi bene. E pensi di essere stato molto fortunato. Due settimane dopo fu ucciso il militante del Fuan Mikis Mantakas. Il 13 marzo, a Milano, viene aggredito Sergio Ramelli, che morirà il 29 aprile.
Intorno alla morte di quel ragazzo Nicola Rao ricostruisce da par suo il clima di quegli anni che saranno definiti di piombo. Lo fa sine ira et studio, con il distacco giornalistico che ha sempre caratterizzato i suoi importanti lavori sulla storia della destra italiana. E lo fa ascoltando i testimoni, rileggendo le cronache, portando alla luce documenti scolastici e dibattiti politici, scavando nelle carte processuali, inquadrando i fatti nel contesto storico, italiano e internazionale. Senza cedere alla tentazione di descrivere i giovani di destra di allora solo come vittime e i giovani di sinistra solo come colpevoli. Ci sono, sì, vittime e colpevoli. Ma il quadro generale è più complesso. E in quel quadro si collocano sia le vittime sia i colpevoli. Tutti. Perché in quegli anni, ricorda Rao, concordando con l’ex militante milanese di Lotta Continua Mario Ferrandi, <la violenza gratuita e indiscriminata non fu di una sola parte. Furono molte le aggressioni violente da parte di militanti neofascisti (soprattutto dei sambabilini ma non solo) verso avversari politici reali o ipotetici>.
Se una differenza c’è, riguarda i numeri, a Milano certamente, ma ovunque. I numeri e la capacità operativa. Le organizzazioni extraparlamentari di sinistra erano numerose, talvolta l’una contro l’altra armate, e contavano su una militanza molto superiore a quella sia del Fronte della Gioventù missino sia degli extraparlamentari di estrema destra, essenzialmente Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, con le loro mutevoli denominazioni. Approssimativamente, senza includere la Fgci, a sinistra operavano Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio, Movimento Studentesco con i suoi Katanga, Autonomia Operaia, con decine di migliaia di militanti, presenti e organizzati nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche.
Tutti questi soggetti sono protagonisti di quella che Nicola Rao definisce <stagione dell’intolleranza>. Armata. Non solo delle chiavi inglesi evocate nel titolo, perché il mezzo metro e i tre chili della Hazet 36 furono lo strumento più diffuso a sinistra per gli agguati – detti cucchini – contro “nemici” isolati. Di un cucchino pagò il prezzo più alto Sergio Ramelli. Studente dell’Istituto tecnico industriale Ettore Molinari. Uno dei pochi “di destra”. Costretto a lasciare quella scuola e a rifugiarsi in un istituto privato. Il collegio dei docenti non riuscì a tutelare il suo diritto allo studio. Meglio che se ne vada. E se n’era andato quando la “spedizione punitiva” lo portò alla morte.
Rao, con le testimonianze e i documenti raccolti, ricostruisce nel dettaglio i fatti e le reazioni. In un clima da guerra civile permanente nel nome dell’antifascismo. Quando, il 13 marzo, il consigliere comunale missino Tomaso Staiti interviene a Palazzo Marino per dare notizia dell’agguato, dal pubblico si scattano gli applausi e si urla “Bene”, “Evviva”. Il sindaco socialista Aldo Aniasi – come risulta dal verbale della seduta – è costretto a intervenire: <richiama il pubblico a non dare segni di intolleranza e affermando di credere che nessuno possa applaudire ad atti di violenza e di criminalità dal momento che la causa dell’antifascismo si difende in tutt’altro modo>. Il 29 aprile quella di Aniasi, nel silenzio generale, sarà una dura condanna: <Non vi sono giustificazioni o attenuanti, né vi possono essere comprensioni di sorta per chi spara, chi usa spranghe, chiavi inglesi, bastoni, catene per colpire gli inermi. Questi sono atti contro la democrazia, non importa chi li compia. Sono atti contro la morale, sono comportamenti vili perché prendono di mira gli inermi. Alla famiglia dello studente deceduto ho fatto pervenire le condoglianze di Consiglio comunale>. Silenzio.
La condanna viene anche dal quotidiano del Pci L’Unità, che definisce l’aggressione <una violenza cieca e compiaciuta>. Arturo Carlo Jemolo, su La Stampa invita a non <accettare una qualunque attenuante con motivazione politica. I delitti di strage, gli assassini restano tali, quali che siano i principi che si vogliano invocare>. Ma non manca di sottolineare che il Pci ha allontanato i violenti, al contrario – a suo parere – del Msi-Dn. Imbarazzanti, dieci anni dopo, nel 1985, quando gli assassini – di Avanguardia Operaia – vengono finalmente individuati, per essere poi, nel 1987, processati e condannati, i commenti di fior di intellettuali, da Rossana Rossanda a Paolo Hutter, da Ludovico Geymonat a Franco Fortini. E anche Aniasi si lascia andare con un <La storia non la scrivono i giudici>. Inquietante. Si distingue Miriam Mafai: <Ramelli non è stato un errore, ma un delitto>.
Tra le testimonianze raccolte da Rao, particolarmente significativa è quella del presidente del Senato Ignazio La Russa, all’epoca segretario del Fdg milanese, poi segretario provinciale del Msi-Dn e avvocato della famiglia Ramelli. Non solo per i ricordi di quei giorni. Soprattutto per le sue considerazioni di oggi: <Da molti anni ho preso le distanze da certe celebrazioni di Sergio. A un certo punto, impedisco ai ragazzi del Fronte della Gioventù di partecipare all’organizzazione […]. Perché più passano gli anni e più si tende a rinchiudere Sergio in una bolla di estrema destra che è semplicemente una falsificazione storica. […] la cosa importante da dire e far capire a tutti è che Sergio era un ragazzo del Fronte della Gioventù, io l’ho conosciuto e so come la pensava: non era un estremista, non era un extraparlamentare, come si diceva una volta. Non era un violento. Non era un picchiatore, Non era uno che rifiutava il dialogo. Era un anticomunista di destra. Era un ragazzo di destra. E così andrebbe ricordato. Per quello che è stato, non per quello che non è mai stato>.
Da quella stagione di intolleranza, di stragi e di sangue – di cui Ramelli e tanti altri sono state vittime – è passato mezzo secolo. Ricostruendola senza enfasi, con precisione e pacatezza, Nicola Rao ha reso un servizio alla storia. Perché di storia si tratta, non di polemica politica fuori del tempo. Una storia che riguarda tutti, non una parte.
Nicola Rao, Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza, Piemme, Milano 2024.
Pubblicato anche su “The Social Post” il 23 ottobre 2024: