Non me la posso ricordare la nevicata del ’56, quando «Roma era tutta candida / tutta pulita e lucida». C’ero, ma vai a capire se quel 12 febbraio la mamma – avevo 2 anni e poco più – mi chiuse in casa o mi portò imbacuccato al parco della Vittoria, pendici di Monte Mario. Chissà. Posso solo essere grato per come Mia Martini cantò quella splendida struggente canzone. Ricordo bene, invece, la nevicata romana del 1969. Un altro 12 febbraio. Al liceo non entrò nessuno. Rapida consultazione. Si decide. Tutti al Parco dei Daini. Qualcuno portò anche un pallone. E archiviammo le palle di neve.
Non nevicava quel 12 febbraio a Milano. Il Sessantotto delle rivolte studentesche era ancora in corso. Poco più di due mesi prima, il 7 dicembre, il movimento studentesco contesta l’inaugurazione della stagione teatrale della Scala, con lancio di uova contro gli spettatori che si apprestano a godersi il Don Carlo di Verdi. Il lungo Sessantotto sta per evolversi nell’autunno caldo sindacale. Il 12 dicembre 1968 il primo governo Rumor era subentrato al breve governo Leone, appena un semestre. Rumor durò poco di più, per sostituirsi a se stesso nel declinare del centrosinistra.
Per l’autunno caldo vero e proprio bisogna aspettare qualche mese. A parte i doverosi rinnovi contrattuali ne nascerà lo Statuto dei lavoratori, nel maggio del 1970. Un passo avanti, va detto. Ma a Milano, quel 12 febbraio, in piazza del Duomo, i sindacati tenevano il loro comizio ai lavoratori in sciopero. Uno sciopero indetto per chiedere l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, come si chiamavano allora. “Stessa paga per uguale lavoro” era il mantra di quei mesi, mentre il boom economico italiano era ormai un ricordo.
Erano stati i sindacati, mentre l’Italia cominciava appena a rinascere dopo la guerra, e il costo della vita cresceva di giorno in giorno, a chiedere agli industriali l’istituzione delle “gabbie”. L’inflazione oscillava tra il 25 e il 40 per cento. Dunque il 6 dicembre del 1945 sindacati e Confindustria firmarono un accordo che prevedeva che le retribuzioni dei dipendenti fossero parametrate al costo della vita su base territoriale. Nel 1946 la svolta riguardò solo il Nord, poi si allargò al Mezzogiorno. Nel 1954 le zone considerate diventarono 14, per tornare a 7 nel 1961. Nella sostanza, considerando il costo della vita della zona in cui i dipendenti lavoravano, rispetto al salario minimo, la differenza poteva oscillare fino al 29 per centro, poi ridotta al 20 qualche anno dopo.
Gli scioperi di quel febbraio 1969 portarono a marzo a un accordo sull’abolizione delle “gabbie”, che progressivamente portò al salario unico. Ed è ancora così. Ne consegue – per fare un solo esempio, significativo – un operaio metalmeccanico di medio livello percepisce una retribuzione lorda di 1989,38 euro, sia a Milano sia a Reggio Calabria. Tassata, nonostante i bonus, le detrazioni ecc., la retribuzione netta sarà circa di 1600 euro. A Milano – per considerare due ipotetici estremi – con le “gabbie”, lo stesso operaio avrebbe una retribuzione lorda di circa 2300 euro. Al netto scende a circa 1800 euro, un po’ meglio. Anche se comunque poco, oggettivamente. La differenza dovrebbe essere maggiore. Non al centro di Milano, ma ad Abbiategrasso, un bilocale in affitto costa 1100 euro. A Reggio Calabria 400 euro. Per dirla chiara, se in tasca all’operaio milanese restano da spendere per vivere 700 euro, chiamarla vita grama è un eufemismo. Al collega di Reggio Calabria restano, invece, 1200 euro.
Si possono fare naturalmente altri esempi. Il contratto dei metalmeccanici è tra i migliori. Poi ci sono, per dire, i lavapiatti, i camerieri, i facchini, i maestri, i postini. Ciascuno faccia il suo esempio. Mentre la disoccupazione in Italia è scesa, quest’anno, al 5,8%, inferiore alla media europea, se le aziende, soprattutto nei servizi, hanno difficoltà a trovare personale, non è solo perché gli stili di vita sono cambiati, ma anche perché il sistema produttivo soffre ancora quella battaglia retorica del 12 febbraio 1969.
Quando si lamenta che gli infermieri emigrano in Svizzera, si dice una stupidaggine. A guadagnare sono solo i frontalieri. Se vivi a Como e lavori a Chiasso sei benestante. Il pendolare quotidiano Bologna-Chiasso non lo puoi fare, devi trasferirti dove il costo della vita non è paragonabile. La Svizzera non è un esempio. E neppure la Gran Bretagna del dopo brexit. Gli infermieri che scelgono di “fuggire” in Arabia Saudita devono cambiare vita, sono migranti di necessità. Non faranno i facchini, come gli italiani in fuga verso le americhe nel tempo che fu, ma sempre migranti sono.
Nessuna bacchetta magica può risolvere la crisi economica che colpisce gran parte dell’Europa. Oggi la Germania sta molto peggio dell’Italia, il che non consola. L’industria tedesca in crisi significa meno importazioni dall’Italia. Il rischio di contagio è forte. Tuttavia, per quanto riguarda il nostro paese, che esista un disagio derivante da retribuzioni ovunque troppo basse rispetto al costo medio della vita è indiscutibile. Migliorare le retribuzioni è necessario. Ma non basta. Ne’ si può pretendere di risolvere tutto tagliando il cuneo fiscale. Si è fatto, forse si può ancora fare, ma senza dimenticare che uno Stato sovrano esiste solo se i cittadini contribuiscono, proporzionalmente al loro reddito. Altrimenti tutto crolla.
Bisogna anche riflettere sul costo della vita largamente diverso da un territorio e l’altro. Non chiamiamole “gabbie salariali”, perché suona male. Ma anche questo nodo esiste. E va sciolto. Imprenditori e sindacati dovrebbero affrontare il problema. Invocare la “rivolta”, come fa il leader della Cgil Maurizio Landini, serve a poco. Sedersi a un tavolo con proposte serie e non retoriche, sarebbe un passo in avanti. Temo però che Cgil e Uil siano culturalmente ferme al febbraio 1969. Quando a Roma nevicava. E a Milano si comiziava in piazza del Duomo. Sbagliando. Anche se allontanarono i filo-maoisti.
Pubblicato 6 dicembre 2024 anche su https://www.thesocialpost.it