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Shoah, memoria e ipocrisia

Gennaio 24, 20250

Sul quotidiano Il Foglio (23 gennaio 2025) Pierluigi Battista ha posto, con il taglio un po’ provocatorio che è nelle sue corde, una questione che da tempo suscita discussioni. L’intervento si intitola Memoria ipocrita. Disertiamo il Giorno della memoria perché è una scommessa culturale perduta. Sostiene, in estrema sintesi, che l’antisemitismo esploso in Italia e in Europa dopo il pogrom di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 conferma i dubbi spesso espressi sull’utilità della ricorrenza commemorativa istituita in Italia con la legge del 20 luglio 2000. Diventò poi ricorrenza internazionale con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale dell’Onu, votata il primo novembre 2005. Si fissò la data al 27 gennaio, giorno della apertura del campo di sterminio di Auschwits nel 1945. Una data simbolica per ricordare la catastrofe della Shoah.

Dal 2001, in Italia, scuole ed enti pubblici e privati organizzano iniziative intorno al 27 gennaio. Speravamo, tutti, che queste iniziative, rivolte soprattutto agli studenti, contribuissero a cancellare l’antisemitismo. In realtà – come purtroppo conferma quanto accaduto e ancora accade – non è stato così. Perché? È difficile capire. La mia impressione è che il Giorno della Memoria sia diventato un evento troppo ritualistico, retorico. Si ricorda la Shoah e ci si lava la coscienza. Poi si volta pagina. Ma poco o nulla rimane nelle coscienze. Detto brutalmente, si piangono gli ebrei morti, si dimenticano gli ebrei vivi e il loro diritto di vivere ovunque in pace. In Italia, nel mondo, e in Israele.

Da molti anni organizzo, in vari contesti, iniziative per il Giorno della Memoria. Non arrivo a chiedere il boicottaggio, anche se capisco bene la provocazione di Pierluigi Battista. Concordo sulla “memoria ipocrita” e sulla “scommessa cultura perduta”. Non ho un’idea alternativa. Quest’anno ho tuttavia deciso di non partecipare. Non voglio alimentare la retorica. Ho scelto un’altra strada. Ricordare la svolta italiana antiebraica e razzista del 1938. L’ho fatto introducendo lo spettacolo teatrale Un diario per non dimenticare, andato in scena il 18 gennaio al Teatro Luca Ronconi di Gubbio, tratto dal diario scritto dall’eugubino Ettore Ajò, che riuscì a salvarsi dalla deportazione. Credo di aver fatto la scelta giusta. Ci sarà tempo per discutere sul futuro del Giorno della Memoria.

Qui il testo del mio intervento:

Esiste ormai una pura “razza italiana”.

Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.

È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti.

Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.

So che queste righe non sono piacevoli da ascoltare. Sono tratte da quello che conosciamo come Manifesto degli scienziati razzisti, o Manifesto della razza. Voluto da Mussolini, fu pubblicato il 14 luglio del 1938 sul quotidiano “Il Giornale d’Italia”. E poi, il 5 agosto, sul primo numero della rivista La difesa della Razza. Sono parole che non vorremmo conoscere. Eppure da qui dobbiamo cominciare, per non dimenticare uno dei momenti più oscuri della nostra storia.
L’antisemitismo non nasce del 1938. In varie forme esiste da sempre. Esiste ancora oggi.Ovunque. Anche in Italia. Sembra archiviato, poi affiora periodicamente come un fiume carsico. Gli ebrei, in Italia, ci sono da sempre. A Roma da prima dell’anno zero. Per secoli non hanno goduto dei diritti civili. Hanno vissuto nei ghetti. Come cittadini di serie B. La prima emancipazione – nel clima risorgimentale – si deve a Carlo Alberto re di Sardegna, nel 1848, con il riconoscimento dei diritti civili. Nel 1949 ebbero anche i diritti politici. Con l’unità d’Italia l’emancipazione si estese a tutti i territori degli Stati preunitari, per finire con quelli dello Stato Pontificio.

Antisemitismo e antigiudaismo religioso certo non scomparvero. Ma gli italiani israeliti – come i valdesi – diventarono finalmente cittadini uguali a tutti: pari diritti, pari doveri. Qualche avvisaglia c’era stata, dalla fine del 1937, ma tutto crolla nell’agosto 1938. Fu avviato il censimento degli ebrei, italiani e stranieri residenti. Molti di questi si erano rifugiati in Italia per sfuggire ai pogrom dell’Europa orientale. Furono espulsi tutti quelli residenti da dopo il 1919. Già a ottobre gli studenti ebrei vengono espulsi dalle scuole.

Quelle che noi chiamiamo “leggi razziali” – razziste – furono un insieme di provvedimenti discriminatori, adottati dal governo e approvati dal Parlamento. La Camera dei deputati, come si sa, era eletta con sistema plebiscitario a lista unica, di fatto i deputati erano nominati dal Pnf. Quindi non c’è da stupirsi del suo voto favorevole. Il Senato era invece di nomina regia a vita. Eppure votò a favore, a parte pochissimi astenuti, nonostante le proteste dei 9 senatori ebrei. Vittorio Emanuele III firmò quelle leggi.

Cominciò la discriminazione. Si torna ai cittadini di serie B.Anche gli ebrei cosiddetti “arianizzati” per “meriti speciali” erano di serie B. Il cosiddetto Tribunale della razza decideva la sorte di chi sperava in un trattamento migliore. Qualche esempio? Divieto di matrimoni misti, divieto per gli ebrei di avere alle dipendenze gli ariani, espulsione dalle pubbliche amministrazioni e dalle società private, divieto esercitare avvocatura, notariato, giornalismo. I professori furono espulsi dalle scuole e dalle università. I militari furono espulsi dalle Forze Armate. I libri di testo scritti da ebrei furono vietati.

Come reagirono gli italiani non ebrei? Bisogna essere onesti. Nella stragrande maggioranza non reagirono, non protestarono. Era impossibile sotto una dittatura? Era difficile, certo. Ma non ci fu una generale diffusione di sconcerto. Non risulta neppure dai controlli di polizia. A parte Benedetto Croce e pochi altri, anche gli intellettuali furono silenziosi.

Quale era il clima? Come si viveva nella discriminazione? Forse ricordate questa poesia di Carlo Alberto Salustri, Trilussa:

L’affare della razza

Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò;/ ma dato che era un nome un po’ giudìo/ agnedi da un Prefetto amico mio/ pe’ domannaje se potevo o no… / Volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / Ch’ero disposto de chiamallo Ajù.
Bisognerà studià – disse er Prefetto – / la vera provenienza de la madre… / Dico: – La madre è un’àngora, ma er padre / era siamese e bazzicava er Ghetto; / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo, in casa der Curato. / Se veramente ciai ‘ste prove in mano – / Me rispose l’amico – se fa presto; / la posizzione è chiara. – E detto questo / firmò una carta e me lo fece ariano. / Però – me disse – pe’ tranquillità, / È forse mejo che lo chiami Ajà.

Sarcastica la poesia, ma non c’è da ridere. Peraltro Trilussa non la scrisse nel 1938 ma nel 1940 e non la pubblicò in Italia, ma all’estero nel 1941. Sarcastico sì, ma prudente.

Per capire bene il clima è interessante un passo della stilista Roberta di Camerino, Giuliana Coen Camerino. Agli studenti ebrei espulsi fu consentito nel 1939 di sostenere la maturità da privatisti. Nelle sue memorie – R come Roberta – pubblicate nel 1981, ricorda che cosa accadde nel liceo Marco Polo di Venezia.

Quella mattina entriamo in classe e assisto alla prima sorpresa. Tutti i banchi sono in fila, come sempre. Ma ce ne sono due in un canto, un po’ scostati. Io faccio per sedermi a caso, quando mi arriva alle spalle un professore e mi dice: “No, laggiù per favore”, e indica uno dei banchi messi da parte. Quasi nessuno si accorge di quel che sta accadendo perché c’è il solito trambusto, gli amici cercano di stare insieme, c’è chi cambia idea all’ultimo momento, chi baratta il suo con un altro posto. Alla fine siamo tutti seduti. C’è un attimo di silenzio, finalmente. Ed è in quel momento che, da un banco centrale, si alza un ragazzo. Non è bianco, è un mulatto. Alza la mano, per poter parlare. È il figlio di una principessa eritrea e d’un generale italiano. “Volevo sapere perché quei candidati son tenuti da parte”.

Ha una voce sonora, un accento romanesco, ma elegante. Il professore ha un momento d’imbarazzo, ma si riprende. “Sono privatisti”. Il mulatto sorride. “Certo: privatisti. Ma perché sono ebrei, non è vero?”. Questa volta l’imbarazzo del professore è più evidente. Il giovane eritreo non gli dà nemmeno il tempo di dire una parola. “Se è per una questione di razza, nemmeno io sono ariano, come certo non vi sarà sfuggito, non è vero? Perciò, con il suo permesso…”.

Ma non aspetta il permesso di nessuno. Prende l’ultimo banco della fila, che era vuoto, e lo spinge verso i nostri, di lato. Allora accade l’imprevedibile, davvero. Tutta la classe si alza, alcuni mi fanno alzare, prendono anche il mio banco. In un niente la classe è tornata normale: tutti i banchi tornano in tre file, noi siamo con gli altri. Il giovane mulatto, prima di sedersi a sua volta, fa un rigoroso inchino al professore.

C’è un attimo di silenzio. L’insegnante è turbato. Si leva gli occhiali, passa una mano sugli occhi. Poi, quasi parlando a se stesso, ma lo sentiamo benissimo dal posto, si lascia scappare un: “Vorrei abbracciarvi tutti quanti”.

Fateci caso. Il racconto è edificante. Il professore vorrebbe abbracciare tutti. Ma non è lui ad agire. È uno studente, che in quel momento, si percepisce – anche lui – “diverso”. Tutti, all’improvviso, si percepirono “diversi”.

Questa è memoria. Una delle memorie. Ma torniamo alla storia. Quello che è successo nel liceo veneziano non accadde in tutti i licei. Gli italiani non ebrei, a parte rare eccezioni, non furono brava gente. Fecero finta di niente. Presero atto delle leggi e abbandonarono amici, conoscenti, compagni di scuola.

Perché Mussolini decise la svolta antiebraica? Sbaglia chi pensa che lo fece su pressione di Hitler. In realtà Hitler non chiese a Mussolini di perseguitare gli ebrei. Fu una decisione autonoma. Anche lui voleva individuare un nemico interno per rafforzare la dittatura.

Dal 1938 ci fu dunque la discriminazione. Dopo il 25 luglio 1943 il governo Badoglio non cancellò subito le leggi razziali. Pressato dagli Alleati, aspettò il gennaio del 1944. Un passo avanti lo fece il governo Bonomi nel luglio del 1944. Ma anche dopo il 1945 gli ebrei fecero fatica a rientrare il possesso dei beni confiscati e dei ruoli professionali e sociali.

Dopo l’armistizio divulgato l’8 settembre 1943, come sapete, l’Italia viene occupata dai tedeschi e nasce la Repubblica Sociale. Dalla discriminazione si passa alla persecuzione. Ormai era nota, anche agli Alleati, la tragedia dei campi di sterminio.

Il 16 ottobre 1943 le SS, supportate dalla milizia neofascista, rastrellarono 1259 ebrei a Roma. Dopo la sconfitta della Germania ne tornarono solo 16.

Il 14 novembre, a Verona, il Partito Fascista Repubblicano varò la sua carta “ideologica” in 18 punti. Al settimo punto si legge: Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica. Non sono più, dunque, neppure cittadini di serie B, ma solo ospiti sgraditi, nemici.

La persecuzione non fu una teoria, ma una prassi. Per fare solo un esempio, che può apparire paradossale, il 25 febbraio 1944 Nella Grassini e il marito Paolo Errera vengono arrestati a Mirano, vicino a Venezia. Dal campo di Fossoli il 5 aprile vengonodeportati ad Auschwitz, senza ritorno.

Perché può apparire paradossale? Il loro figlio Adolfo Errera aveva sposato Giuliana Barella, figlia del fedelissimoamministratore del giornale di Mussolini “Il Popolo d’Italia”.  Nella Grassini era la sorella maggiore di Margherita Grassini Sarfatti.

Questo è il drammatico contesto storico in cui si colloca il diario di Ettore Ajò. Una triste testimonianza di quel tempo. Triste ma, per fortuna, a lieto fine.

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Il Teatro di Gubbio era pieno di spettatori attenti. Ricorderanno? Forse. Rifletteranno sull’antisemitismo del presente? Forse. Posso solo augurarmelo.

 

Pubblicato anche su “The Social Post” il 24 gennaio 2025:

https://www.thesocialpost.it/2025/01/24/shoah-memoria-e-ipocrisia/

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