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Il Calvino stroncato

Febbraio 3, 20250

Una interessante recensione apparsa sull’inserto culturale del Sole24Ore [Marco Belpoliti, Il sorpasso (bocciato) secondo Calvino, 2 febbraio] mi ha spinto a leggere Il sorpasso di Italo Calvino, pubblicato da Oscar Mondadori nel settembre del 2024. Sia pur tardive, le recensioni hanno ancora un ruolo, anche se ormai gli editori, per promuovere le pubblicazioni – anche di saggistica, come questa – si affidano a strumenti più “moderni”. Mi ha interessato perché mi ha fatto ripensare a un periodo della nostra storia che ho vissuto e ben ne ricordo il clima.
Non equivochiamo. Non si tratta dell’omonimo Il Sorpasso, il film capolavoro di Dino Risi, sceneggiato da Ruggero Maccari ed Ettore Scola su un soggetto di Rodolfo Sonego. Uscì nel 1962. Ero troppo giovane. L’ho visto molto dopo. Più di una volta. Nessuno può negare che sia un capolavoro. Né si può obiettare sui protagonisti: Vittorio Gassman, Catherine Spaak e Jean-Luis Trintignan. Splendido quanto angosciante, il film, ambientato nell’Italia del boom economico.

L’Italia de Il Sorpasso di Calvino è tutta un’altra cosa. Il sorpasso di cui si parla è quello elettorale mancato del PCI sulla DC nelle elezioni anticipate del giugno del 1976. Sorpasso temuto dagli elettori di area conservatrice – oggi si può dire così – dopo i risultati delle regionali dell’anno precedente. Il 15/16 giugno 1975 la DC, a livello nazionale, conquistò il 35,27% dei suffragi. Il PCI la tallonò con il 33,46%. Dopo la crisi definiva del centrosinistra al governo era un bicolore DC-PRI, con Aldo Moro presidente del Consiglio e Ugo La Malfa vice. L’economia non andava bene. Era il tempo delle stragi e delle nascenti Brigate Rosse. Ricordo bene che, a Roma, il timore del sorpasso era diffusissimo. Qualcuno era convinto che sarebbe stato opportuno fare un viaggio in Svizzera. Un clima da 1948. Quello testimoniato all’epoca da Cesare Merzagora, a lungo presidente del Senato e poi senatore a vita. In un discorso al Teatro Lirico di Milano, i 3 aprile 1948, denunciò: <Mi si dice che a Milano alcune famiglie, dopo il voto, pensano di trasferirsi all’estero per attendere colà il risultato>.

In realtà il sorpasso non ci fu. La DC ottenne il 38,71% e il PCI il 34,37%. La forbice dunque si allargò, probabilmente per la diversa base elettorale. Nel 1975 avevano votato solo le 15 regioni a statuto ordinario. L’anno dopo, alle politiche, votarono per la prima volta anche i diciottenni, che forse influirono sull’ingresso alla Camera di Democrazia Proletaria e del Partito Radicale. Ne scaturirono i governi Andreotti della “non sfiducia”, con l’astensione del PCI guidato da Enrico Berlinguer. Sono gli anni della “solidarietà nazionale”. Quelli di piombo non erano finiti. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro fu sequestrato dalle Brigate Rosse, che lo “giustiziarono” il 9 maggio.

Che cosa c’entra Italo Calvino? Come ricordano il curatore Stefano Campagnolo e l’ottimo prefatore Sabino Cassese, l’editor della prestigiosa New York Review of Books, Robert B. Silvers, chiese allo scrittore un’analisi della situazione italiana. Calvino dal 1967 viveva a Parigi e spesso girava il mondo. Ma trascorreva l’estate nel rifugio nella sua villa nella Pineta di Roccammare, a Castiglione della Pescaia (Grosseto). Ormai molto raramente Calvino scriveva di politica. Poco prima delle elezioni – il 13 giugno – aveva pubblicato il corsivo Del mantenere la calma sul “Corriere della Sera”, a commento dell’uccisione a Genova (11 giugno) del procuratore generale Francesco Coco, senza citare le Brigate Rosse, e delle prospettive politiche. <Vorrei – scriveva – che i comunisti, nella fase della loro storia che forse si apre. Non perdessero del tutto la loro disciplina di ferro, la solo intransigenza morale>. Calvino, come si sa, nel 1944 aveva aderito alla Resistenza nelle file comuniste e rimase iscritto al PCI fino al 1957. <Tuttavia – ricorda Sabino Cassese – continuò a condividerne il giudizio sulla situazione italiana>.

Lo scrittore accettò l’invito di Silvers e scrisse un lungo articolo. E lo inviò al committente. L’ho letto. Con attenzione. E mi ha lasciato in larga parte perplesso, salvo forse le riflessioni sui cambiamenti sociali e culturali determinati dal Sessantotto. Prende atto della vittoria della DC, dovuta, ritiene, all’aver <mietuto una buona parte dei voti dei suoi tradizionali alleati di centro>. Dimentica che in realtà furono il rientro alla DC degli elettori che, nel 1972, l’avevano lasciata – “voti in libera uscita”, li definì Giulio Andreotti – scegliendo il MSI-DN, che arrivò al suo massimo storico con l’8,67% alla Camera. Nel 1976 scese al 6,1%. Una crisi che, l’anno dopo, portò alla scissione di Democrazia Nazionale. A parte i voti temporaneamente missini, la DC nulla sottrasse al PSDI e al PRI. Una piccola quota al PLI. Sarà stato distratto.

Scontata la critica feroce alla DC, nel quadro di un’analisi socio-politica poco convincente, che spazia dalla “strategia della tensione” al ruolo delle Regioni e dei comuni, può sorprendere la tesi che Berlinguer non volesse vincere, consapevole di non avere il PCI la necessaria struttura/cultura. <Il paradosso della situazione italiana – scrive Calvino – vuole dunque che i comunisti vengano chiamati come elemento moderatore e stabilizzatore. Sono essi disposti a giocare quel ruolo? Pur senza accettarlo, non dicono di scartarlo>. Una posizione che, secondo Calvino, è troppo ambigua in presenza del realizzato abbandono delle strette relazioni (e dei finanziamenti) con l’Unione Sovietica, pur convinto che <quello che i sovietici intendono per “socialismo” si identifica solo con l’area dove arrivano i loro carri armati>. Nonostante questo, quanto ai comunisti italiani, <Può darsi che il continuare sulla loro linea porti Berlinguer e il suo partito a rompere definitivamente ogni legame con Mosca e gli altri partiti comunisti; ma non mi pare che sia una cosa da augurarsi, per chi spera in un rinnovamento – ora quanto mai lontano – del Comunismo internazionale nel suo complesso>. Storicamente le cose sono un po’ più complesse in quel 1976. D’altra parte Calvino ancora si chiede <Chi siano le Brigate Rosse?> Ma è invece certo che il PCI non cambierà sua posizione anti israeliana. Almeno così scrive a Silvers. D’altra parte, rispondendo a un palestinese, nel 1968, dopo la guerra dei “sei giorni”, con Israele aggredita dagli stati arabi, gli conferma la sua <solidarietà agli oppressi palestinesi e ai loro combattenti per la resistenza>.

Con onestà intellettuale, potevo aspettarmi di meglio da un testo scritto da chi aveva definito George Orwell <un libellista di second’ordine>? In ogni caso, è un bene che lo scritto di Calvino sia ora disponibile. È una testimonianza di quanto confusa sia stata quella stagione italiana, in senso politico, ma anche sotto il profilo culturale. Certo è difficile capire il senso complessivo dell’articolo. Non riuscì a capirlo neppure Robert B. Silvers. Che scrisse a Calvino, l’8 luglio, una lettera di ben 12 pagine con le sue obiezioni, punto per punto. Un esempio? <A nostro avviso, questa sezione delle pagine 1-14 avrebbe potuto essere più compatta e incisiva. Ci sono ancor maggiori difficoltà con la sezione successiva, le pagine 14-19>. Con grande cortesia formale, nella sostanza Silvers stronca Calvino. Che prova a riscrivere, ma alla fine rinuncia. La lettera dell’editor risulta, paradossalmente, sotto il profilo storiografico, più interessante dell’articolo rifiutato e solo oggi pubblicato grazie all’archiviazione, nella Biblioteca Nazionale di Roma, di carte calviniane.

Dimenticavo. La lettera dell’editor si chiude così: <In ogni caso, le allego un assegno per l’importo di cui le avevo detto e spero di avere sue notizie>. Stroncato, ma correttamente retribuito. Altri tempi.

 

Pubblicato anche su “The Social Post” il 3 febbraio 2025:

https://www.thesocialpost.it/2025/02/03/quella-stroncatura-italo-calvino-figlio-confuso-di-un-altro-tempo/

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