Nel 2014 la rivista “Artribune” chiese a Vivien Greene perché New York fosse <<riuscita a fare ciò di cui l’Italia non è stata capace nel 2009, anno del centenario: un’unica grande mostra onnicomprensiva>>. Vivien Green aveva curato la mostra Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe al Guggenheim Museum, che è già un’opera d’arte in sé. Rispose di avere <<l’impressione che ogni città abbia voluto realizzare la propria mostra, anziché unire le forze e lavorare di comune accordo per mettere su una grande retrospettiva itinerante, un’unica mostra che girasse il Paese, da Nord a Sud. Penso sarebbe stata la cosa più auspicabile, e anche la più utile culturalmente. Si è preferito celebrare il centenario ognuno per proprio conto: come milanesi, come romani e così via. Non come italiani. Rispetto ad altre realtà nazionali, del resto, l’Italia è storicamente ancora molto giovane, e forse deve ancora scontare la sua antica frammentazione e l’assenza di uno “spirito dello Stato”>>.
In effetti, nel 2009, centenario del Manifesto del Futurismo in cui Filippo Tommaso Marinetti avvisa <<Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia>>, in Italia si allestirono mostre, in particolare quella al Palazzo Reale di Milano.
Non sono un esperto di arte, né di mostre. Ma mi colpì che la direttrice del Guggenheim cogliesse la nostra reticenza nel percepire l’Italia come uno Stato. E lo dicesse come americana di madre siciliana. Comunque, nel 2014, ero per la prima volta a New York. Anzi, la mostra, annunciata come “la prima panoramica completa di uno dei più importanti movimenti d’avanguardia dell’Europa del 20° secolo” negli Stati Uniti, fu forse il principale motivo di quel viaggio. Beh, la mostra era meravigliosa. Senza alcun dubbio. Questa fu la sensazione.
Dieci anni dopo, forse il nostro senso dello Stato è migliorato se, nell’ottantesimo anniversario della morte di Marinetti, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, che tanto deve alla grinta e allo spirito della zarina Palma Bucarelli, non credo di sbagliare definendo meravigliosa la mostra Il Tempo del Futurismo, curata da Gabriele Simongini e aperta il 3 dicembre scorso. E’ stata presa d’assalto dai visitatori. Temendo di perdermela ci sono andato, scoprendo che l’afflusso e’ stato tale da prorogare la chiusura dal 28 febbraio al 27 aprile. E magri sarà prorogata ancora.
Certo, ho girato nelle sale espositive da non esperto. Ma se le mostre fossero frequentate solo da critici d’arte andrebbero deserte. C’erano anche studenti guidati da professori. Ma anche tante persone normali, italiani e stranieri. Qualche opera, ovviamente, la conoscevo. Così come i loro autori. Balla, Depero, Carra’, Russolo, Severini, Boccioni e tanti altri. Quel Boccioni che, secondo la sua biografa Rachele Ferrario (Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo, Mondadori), ha “fatto il futurismo”, perché avrebbe dipinto la Città che sale anche se non avesse incontrato Marinetti. Già, la Città che sale, che è esposta al MoMA di New York perché nel dopoguerra l’Italia considerò imbarazzante trattenerlo, perché il Futurismo ricordava il fascismo. Anche se Boccioni era morto nel 1916, volontario nella Grande Guerra. Anche se il Futurismo nasce ben prima del fascismo e, al massimo, lo accompagna nel suo percorso. Un ventennio in cui è difficile individuare artisti oppositori del regime.
La mostra ha un taglio particolare. Comincia prima del Futurismo e finisce dopo. Precursori e successori lasciano intendere quanto l’arte stesse cambiando in Italia all’inizio del secolo, continuando poi a evolversi, fino a Mario Schifano, per intenderci. L’altra caratteristica è che la mostra va oltre le arti figurative e l’architettura, allarga lo spazio visuale. Il Futurismo rincorre la modernità senza limiti. Immagina futuri telefoni senza fili. Ama i motori e la tecnologia. Dunque si possono ammirare le radio d’epoca, automobili, macchine per scrivere, motociclette, le invenzioni di Guglielmo Marconi. E poi c’è la carta. Nel senso di un vasto apparato di libri d’epoca legati al futurismo, non solo letterario, non solo di Marinetti.
Camminare per le sale espostive è come attraversare lo spirito di un’epoca creativa, che vuole modellare un futuro diverso, essenzialmente libertario. Un futuro imprevedibile, anche se già la fantascienza ottocentesca aveva previsto molto di quel che poi è accaduto. Ma chi poteva immaginare, pochi anni fa, l’intelligenza artificiale? Alla fine del percorso, a parte l’ammirazione per quei protagonisti, viene da porsi una domanda: il futuro in itinere saprà fermarsi prima di distruggere l’umanità? Una domanda senza risposta.
Pubblicato anche su “The Social Post”:
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