“C’est la première fois que je vois un président de la république française qui préfère défendre les intérêts de l’UE avant ceux de la France”.
È forse in queste due righe scritte da un lettore del quotidiano francese “Le Figaro”, a commento del primo turno presidenziale, il cuore del problema. Che riguarda i francesi, ma in realtà tutti i cittadini dell’Unione Europea. Il lettore si riferisce a un presunto europeismo radicale di Macron, ma non è questo il punto.
Per capire quale sia il punto bisogna tornare indietro di qualche decennio. Al 1965, per la precisione. Cioè a 57 anni fa. Quando il presidente francese Charles de Gaulle si oppose alla proposta di consentire alle Comunità Europee di darsi un bilancio autonomo dai contributi degli Stati membri, attraverso una diretta imposizione fiscale. Una svolta che le avrebbe trasformate da pattizie a sovrane. Dopo sette mesi di “sedia vuota”, si arrivò a un compromesso: per una decisione comunitaria sarebbe stata necessaria l’unanimita’ su questioni considerate di grande rilievo per uno degli Stati membri. Formula liquida, in verità. Il processo di integrazione europea era cominciato nel 1951 con la Ceca. Nel 1957 il Trattato di Roma costituì la CEE e l’Euratom. La “Piccola Europa” era a nata, con Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Un miracolo, se si pensa che due dei sei paesi – Germania e Italia – avevano combattuto contro gli altri nella seconda Guerra Mondiale. L’auspicio era che la stretta collaborazione economica portasse con se quella politica, per congiurare una nuova guerra intraeuropea.
Il sogno – l’illusione, in verità – era giungere col tempo a un’Europa federale, agli Stati Uniti d’Europa, in sostanza. Il modello era quello degli USA, ma in fondo anche quello dell’URSS. Con una differenza radicale. Gli USA nascono dal basso – e con una guerra civile in mezzo -, mentre l’URSS nasceva per dominio della Russia sulle altre repubbliche socialiste sovietiche.
I sognatori pensarono che fosse possibile trasformare il nazionalismo dei singoli Stati in un nazionalismo supernazionale. Un bel sogno. Ma difficile da inverare. Almeno fino a quando le nazioni non saranno capaci – culturalmente – di voltare pagina. Forse non basterà un altro secolo. Nel frattempo la “Piccola Europa” è diventata una “Grande Europa”, ma non è mai riuscita manifestarsi come entità politica e militare. Con la conseguenza di essere percepita da parte dei cittadini dei singoli Stati come sovrastruttura costosa, capace solo di imporre regola fastidiose, se non decisamente odiose. Al punto da generare un sentimento anti-europeo, radicato soprattutto nelle categorie sociali più deboli.
Il lettore del “Figaro” in fondo che cosa lamenta se non che l’interesse comunitario prevalga su quello di casa sua? E che cosa hanno fatto – a maggioranza – gli inglesi votando la Brexit? Perché mai una sovrastruttura percepita solo come burocratica dovrebbe prevalere? Come glielo spieghi all’allevatore bretone o all’operaio inglese? Come glielo spieghi a popoli – e classi politiche – in fondo ancora gonfi di nostalgia dei bei tempi degli imperi coloniali? Per l’eterogenesi dei fini e’ possibile che la crisi Ucraina apra qualche occhio, a caro prezzo. È evidente che una Ue solo economica, non politica ne’ militare, non è in condizioni di competere con la riemersa volontà espansiva della Russia, ne’ tantomeno con la Cina e con gli USA. Forse, tra poco, neppure con l’India. L’allevatore bretone non lo sa, e si illude che una Francia più forte, libera dai vincoli comunitari, possa veramente difendere meglio i suoi interessi nella competizione mondiale. Ma è veramente una illusione.
De Gaulle è morto da 52 anni. E i suoi epigoni politici si sono sciolti come neve al sole. La sua formula Europa delle Patrie – poiché suggestiva – non è invece morta con lui. Ma nel brandirla bisogna saper contestualizzarne la genesi. Nel 1965 una Francia che soffriva la decolonizzazione e aveva appena chiuso la guerra d’Algeria aveva bisogno di non sentirsi sminuita. In fondo, grazie a De Gaulle, aveva potuto sedersi al tavolo dei vincitori del 1945, dopo aver rischiato tutto. Ma oggi il revanchismo ha un senso? De Gaulle non sarebbe oggi tanto perspicace da capire che l’Europa delle Patrie potrebbe essere la bandiera di nazioni che, insieme, provano a costruire qualcosa di politicamente più solido di una burocrazia impegnata – per esasperare – sulla dimensione delle zucchine e delle triglie?
Poiché i secoli pesano, nessuno può togliere a francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, lettoni, greci e via discorrendo la loro storia, la loro cultura, la loro “anima”. Perché i popoli – con tutte le loro interne contraddizioni – hanno un’anima. Va compresa, rispettata. Forse un contadino greco ha difficoltà a immedesimarsi nei problemi dell’allevatore francese. Una difficoltà reciproca. Anche se chiamano con nomi diversi lo stesso intruglio di acqua, alcol e anice. Ma entrambi possono davvero illudersi che tornare alle piccole Patrie risolva problemi planetari? Perché senza Europa sarebbero piccole Patrie bottegaie, con tutto il rispetto per le botteghe e i bottegai. Forse sì.
Come finirà la lotta per l’Eliseo è difficile prevedere. Seguiamo con interesse perché riguarda anche noi. Però decidono loro. Con grande fatica. Tanto che un altro lettore del “Figaro” chiede sconsolato: “De grâce Mesdames et Messieurs des médias laisser les électeurs choisir! Et ce sera dur entre la Peste et le Choléra”.
Paradossi.
1. “Le Figaro” è un grande giornale tradizionalmente percepito come “di destra”. Ora i suoi lettori lo criticano come troppo “macronista”.
2. Tra centinaia di commenti nessuno parla di Ucraina.