Era il 12 aprile del 1992, cioè trent’anni fa, quando a Parigi aprì Euro Disneyland, o Eurodisney, come si diceva. Non proprio a Parigi, per là verità, ma a 32 chilometri di distanza, a Marne-la-Vallée. Ma, insomma, non ci si faceva caso. Le cronache ricordano che all’inizio non fu un successo. Cambiò pure nome in Disneyland Paris, forse per rendere più “francese” una cosa molto americana. Oggi si chiama Parc Disneyland, perché i francesi ci tengono alla loro lingua.
Per farla breve. Mio figlio non aveva otto anni e ce lo portai, in estate. Perché non farlo sognare? O volevo sognare io? Molti criticarono quel parco di divertimenti. Come se l’averlo trasferito in Europa fosse l’ennesimo spregevole esempio di “colonizzazione” statunitense. Tutti abbiamo letto Topolino e abbiamo amato i cartoni disneyani. Chi ne ha il coraggio, neghi di aver amato Mary Poppins e di averlo rivisto più volte. Di aver invidiato il Viale dei Ciliegi e sognato Julie Andrews. Di aver visto nel 2018 Il ritorno, e di averlo paragonato all’originale di 54 anni prima.
Mentre l’antiamericanismo ideologico – mai sopito, peraltro – sta riaffiorando, mi sono ricordato di aver scritto qualche riga su quel viaggio di trent’anni fa. Le ho ripescate. Le ho rilette. Spesso ci si pente di ciò che si è pensato e scritto in un’altra epoca. Di qualcosa mi son pentito anch’io. Non di questo. Mi sembra persino attuale.
Io difendo Eurodisney
Abbiamo appena “volato” – io e Leonardo – sui tetti di Londra con la nave di Peter Pan. Abbiamo visto Capitan Uncino alle prese con il coccodrillo, gli indiani e i Bambini Sperduti. L’incanto di plastica e cartapesta dell’ennesima attrazione di Eurodisney è svanito nel sole accecante di un pomeriggio afoso. <Leonardo – provoco mio figlio, sette anni e mezzo, mentre ci avviamo all’antro dei pirati – allora hai visto: non è vero che non c’è l’Isola che-non-c’è. Peter Pan abita qui, vicino a Parigi>. <No, papà, – risponde lui -. Ma che dici? Certo che esiste l’Isola che-non-c’è, ma mica sta qui. È dentro la mia mente, nella mia fantasia>.
Ero arrivato a Eurodisney con qualche perplessità. Me lo aveva proposto un amico: <Dai, partiamo con i ragazzi: dormiamo nel villaggio del West; se lo ricorderanno tutta la vita>. Questo è sicuro, penso. Tre giorni “trasgressivi”, lontano dalla scuola. Il fascino di un viaggio “tra soli uomini” con i papà sempre troppo impegnati per loro. Il passaporto, la colazione a bordo dell’aereo – <Sarà un Jumbo, vero papà?> <No, è un Airbus, ma vola lo stesso, non ti preoccupare> -, l’approdo in una valle di sogno dove si toccano con mano i personaggi dei troppi cartoni assorbiti dalla tv. Quando glielo dissi, Leonardo non dormì tutta la notte. Non gli piaceva l’idea dell’aereo. Due giorni dopo mi sveglia: <Ho deciso – dice serio – possiamo partire>.
Ero perplesso. Contento e perplesso. Come tanti, credo, soffro di dedicare poco tempo a mio figlio. Andare a Eurodisney era un modo per fargli un bel regalo e per passare con lui, tutto insieme, il tempo che, di solito, gli “concedo” nell’arco di quindici giorni. Ed un “tempo” più denso, riempito sì dall’eccezionalità del luogo, ma anche da esigenze e problemi ordinari, di fronte ai quali un padre di norma passa la mano.
Ma perché proprio lì, in quel pezzo di filosofia americana trapiantata nel cuore dell’Europa? Perché proprio in quel Paese delle Meraviglie che ha tanto il sapore dell’ennesima colonizzazione culturale ai danni delle tradizioni del vecchio continente? L’inviato del mio giornale, quando Eurodisney fu inaugurata, nell’aprile scorso, lo aveva detto chiaramente: è un mondo posticcio, un corpo estraneo. Sotto il profilo economico, tra l’altro, l’impresa per ora sembra un fallimento. I francesi non ci vanno. Ma, per la verità, non vanno neppure nel parco di Asterix. E poi, mi chiedevo, chi dice che vedere Paperino e Pippo, la Sirenetta e Mago Merlino, il Drago e tutti gli altri trasformati in brutte copie deambulanti dei cartoni animati non sarà, in fondo, una disillusione?
Sbagliavo. Bisogna essere bambini per cogliere sul serio il senso di una fiaba. Bisogna essere bambini per riuscire a viverci dentro, come in una realtà virtuale, e al tempo stesso non perdere il contatto con la realtà. Bisogna essere bambini per partecipare con intima convinzione alla scena, per far finta di credere che il figurante vestito da Pippo-sceriffo sia realmente Pippo-sceriffo, ed emozionarsi se ti prende per mano. Bisogna essere bambini per giocare all’assalto alla diligenza insieme ad altri bambini con i quali si dialoga solo a gesti e a boom-boom, eppure ci si capisce.
Leonardo “colonizzato”, mio malgrado, prima dalla tv e poi dalla gita parigina? Sarebbe meglio leggere le fiabe piuttosto che scorrere i fumetti. Ma Disney – checché ne dicano certi rigorosi e presuntuosi custodi di chissà quale Ideologia – non è la personificazione del Male, non è un attentato alla cultura. Alimenta la fantasia. Vorrei averne anch’io ancora tanta da credere che l’astronave partecipi a una guerra spaziale, “sbarcare” e dire: <Potrebbe essere stato tutto vero. L’astronave torna alla velocità della luce. Quindi da fuori nessuno può accorgersi quando parte>.
L’aereo per Roma decolla con due ore di ritardo. Siamo in fila sulla pista dello “Charles de Gaulle”. <Papà, guarda, là sul prato, ci sono i conigli>. Ti dispiace tornare a casa Leonardo? <No. Restando si rischia di fare la fine di Lucignolo nel Paese dei Balocchi… Tanto, poi, ci torneremo. Vero, papà?>
(Partecipare, n. 3, maggio-giugno 1992)