O Questa volta ero indeciso. Tornare a Roma la sera di domenica invece di starmene in pace fino a lunedì mattina non era una scelta scontata. Mi era evidente, da settimane, che il quorum per i referendum non sarebbe stato raggiunto. Poi ha prevalso il mio senso del dovere. Un po’ autolesionista, lo ammetto. Ma ognuno ha i suoi difetti. A mia memoria ho sempre votato. Politiche, amministrative, europee, e anche nelle consultazioni referendarie. Considero il voto un diritto-dovere inalienabile del cittadino. Senza diritto di voto non si è cittadini, ma semplici abitanti. Il suffragio universale è stata una conquista alla quale mai vorrei rinunciare.
Dunque ho votato. Pur consapevole che con l’affluenza del 6 per cento a mezzogiorno e del 14 alle 19 stavo sprecando il mio tempo. Eppure mi sarei sentito in colpa se non avessi raggiunto il seggio. Semidesertico, in verità. Desolante. Ma mi è tornata in mente quella volta che – per le politiche del 26/27 giugno 1983 – mi imbarcai a Olbia – passaggio di ponte, per risparmiare -, sbarcai a Civitavecchia, raggiunsi in treno Roma, votai, e tornai indietro, in vacanza. Soddisfatto. Potevo mancare oggi? Ho deciso che dovevo dare il mio inutile voto.
Si dirà che, dopo tanti fallimenti, l’istituto referendario è entrato ormai in una crisi irreversibile. Si dirà che andrebbe riformato. Ed è probabilmente vero. D’altra parte io sono convinto che, salvi i principi generali, anche la Costituzione dovrebbe essere riscritta da capo da un’apposita assemblea costituente. Emendarla qui e là non l’ha migliorata, anzi.
Non credo però che i referendum siano in crisi perché desueti. Piuttosto, quello che stasera dobbiamo registrare è una preoccupante conferma della crisi della politica. Tutti i quesiti ammessi dalla Corte Costituzionale attengono a materie complesse, che dovrebbero essere affrontate, discusse, decise dal Parlamento. Pretendere che i cittadini normali si formino un parere positivo o negativo su tali questioni è semplicemente illusorio. Per di più in giorni come questi. In mesi come questi. Con la guerra e le sue conseguenze. Con l’inflazione che decurta le retribuzioni. Con il lievitare dei costi energetici e delle materie prime. Con l’incertezza del futuro, mentre la pandemia non è svanita. Non è che tagliare le accise sulla benzina basti a tranquillizzare. Tutti sanno che il taglio costa un miliardo al mese, che si riverserà sulle tasse, cioè sulle retribuzione di chi le paga. E quando dico chi le paga mi riferisco a chi dispone di un reddito sufficiente a superare la soglia della povertà, senza per questo essere benestante. Poi ci sono gli evasori professionali, ma è un altro discorso.
E in questo momento quale dabbenuomo poteva immaginare una mobilitazione popolare per l’abrogazione delle norme della cosiddetta legge Severino che prevedono l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per quanti sono stati condannati in via definitiva per alcuni tipi di reato, dalla mafia al terrorismo a quelli contro la pubblica amministrazione? Ditemi, chi? E lasciamo perdere la solita litania sulla informazione inadeguata. È stata tal quale a sempre. Sul divorzio cadde Fanfani, mica Paperino. Perché il tema era lampante. Divisivo ma lampante.
Oppure il cittadino avrebbe dovuto esaltarsi per l’antica questione della separazione delle carriere dei magistrati? Suvvia. Sono da sempre favorevole a distinguere nettamente inquirenti e giudicanti. Ruoli e carriere diversi, per cortesia. Ma per cambiare, su queste materie, ci vuole una maggioranza in Parlamento, non l’appello al popolo. Il quale popolo si aspetta processi rapidi e meno errori giudiziari, non altro. Non siamo di fronte alla crisi dei referendum. Quelli che hanno funzionato erano chiari, immediatamente percepibili da chiunque. Un chiunque che può anche sbagliare, come me nel 1987 sul nucleare. Fui suggestionato e sbagliai. Da tempo mi sono pentito di quel voto. Di quelli di oggi no. Ho votato secondo coscienza, da cittadino. Per tigna, direi. Hanno sbagliato i promotori, non i cittadini. Però, ora, la politica faccia il suo mestiere. In questa disgraziata legislatura declinante è impossibile. Si vota tra pochi mesi. Sarà interessante capire se i temi oggi archiviati torneranno – chiaramente enunciati – in qualche programma elettorale. Sarà molto interessante.
Nel frattempo registriamo una affluenza in calo anche alle amministrative. Sarà pure fisiologico. Al primo turno delle legislative francesi l’astensione è al 53 per cento. Ma qualcosa non va. E torniamo così alla crisi della politica…