Due giorni fa (20 settembre 2022) nella sua Pavia, è morto a 98 anni Virginio Rognoni, che dal al 1983 fu ministro dell’Interno per la Dc. Si è scritto che fu un ottimo ministro, che dovette affrontare gli anni di piombo dopo il caso Moro. Poi fu ministro della Difesa, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, aderì al Partito Popolare e infine al Pd. Si è ricordato il suo impegno contro la mafia. Non si è invece ricordato quel che accadde a Roma il 9 ottobre del 1982, quando era appunto titolare del Viminale.
Quel giorno un commando terrorista palestinese armato di fucili e bombe a mano attaccò gli ebrei romani che uscivano dalla Sinagoga Maggiore dopo le celebrazioni per il Shemini ’Atzeret. 37 i feriti, molti gravi. Un morto. Aveva due anni e si chiamava Stefano Gaj Taché. Solo trent’anni dopo, nel 2012, fu riconosciuto come vittima del terrorismo. Trent’anni per ammettere la verità…
La sera di quel tragico 9 ottobre la Comunità Ebraica di Roma diffuse questo comunicato: <Questa manifestazione di feroce antisemitismo è l’ultima e la più grave di una serie di atti di violenza che non hanno precedenti nella storia dell’Italia democratica. La responsabilità di questi gravissimi fatti non ricade soltanto sui diretti esecutori degli attentati, chiunque essi siano, ma vi sono responsabilità che vanno chiaramente denunciate>. Perché <è mancata quell’opera di organica prevenzione e protezione che è stata più volte sollecitata al ministro dell’Interno – Rognoni, appunto – e che appariva indispensabile, considerati i gravi fatti che si erano verificati. Denunciamo soprattutto quelle forze politiche e quegli organi di stampa che hanno creato un clima di odio e di antisemitismo attraverso una campagna di critiche che investiva non tanto la politica e il governo di Israele, quanto lo Stato ebraico e l’ebraismo in generale>, e <a ciò hanno contribuito anche le accoglienze a Roma al capo dell’Olp, un’organizzazione che ha lunga storia di atti di terrorismo anti-israeliani e antisemiti>.
Il 15 settembre il capo dell’Olp Yasser Arafat era atterrato all’aeroporto militare di Ciampino, accolto per il PCI da Paolo Bufalini, responsabili delle relazioni estere. Arafat fu ricevuto dalla presidente della Camera Nilde Iotti – quasi un trionfo -, da Giulio Andreotti, presidente dell’Interparlamentare, dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, da Enrico Berlinguer, da Bettino Craxi, dal ministro degli Esteri Emilio Colombo. Il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini non volle incontrarlo. Lo ricevette, invece, papa Giovanni Paolo II. Realpolitik, si dirà. Ma…
Quarant’anni dopo è, naturalmente, il tempo di storicizzare, di contestualizzare, di spiegare in quale clima interno e internazionale l’attentato dell’Olp si situò. Lo si è fatto, nel corso degli anni. Eppure sembra ancora difficile. Nella targa del Largo che è stato intitolato al piccolo Stefano si legge <Vittima del terrorismo a soli due anni>, ma non si dice di quale terrorismo. Omissioni…
Si può comprendere – credo – quanto dolore abbia accompagnato il fratello di Stefano, Gadiel Gaj Taché, che allora aveva cinque anni e fu gravemente ferito, nella scrittura di un libro – Il silenzio che urla. L’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, Giuntina – che è sì memoria, ma anche storia, analisi, svelamento di verità.
<Non era una giornata come tutte le altre. Era Shabbat – ricorda – ed era la festa di Shemini ‘Atzeret, la festa che segue subito quella di Sukkòt (la Festa delle Capanne) Nela tradizione ebraica, in quella giornata i rabbini usano dare la benedizione a tutti i bambini, quindi era importante per la mia famiglia essere presenti. Così mamma ci svegliò e ci preparò per andare al Tempio […] Come al solito avevamo fatto tardi…>
Ricordi. Di <una bellissima giornata di sole>, un’ottobrata romana, come quella di oggi. Che però finì nel sangue. Ricordi. Ma il libro di Gadiel Gaj Taché non è solo ricordo. Entra nel cuore storico dell’Italia di allora. Quando il “lodo Moro”, e fors’anche europeo, consentì che accadesse quello che accadde. Fu Francesco Cossiga, predecessore di Rognoni al Viminale, dimessosi dopo l’assassinio di Moro, a spiegare al quotidiano israeliano “Yediot Aharonot” <l’esistenza di un accordo sulla base della formula tu non mi colpisci e io non ti colpisco tra lo Stato Italiano e una organizzazione come l’OLP e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina>. Ne derivò – scrive Gaj Taché che gli ebrei, in Italia, <negli anni ’70 e 80 sarebbero stati considerati cittadini di serie B che potevano essere sacrificati in nome dell’immunità del resto del Paese>.Cossiga– scrive – <affermò che “in cambio della mano libera in Italia i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e l’immunità di obiettivi italiani al di fuori del paese da attentati terroristici, fin tanto che tali obiettivi non collaborassero col sionismo e con lo Stato d’Israele”>.
Questa era l’Italia. Un’Italia che spesso si preferisce dimenticare. Un’Italia ammantata di silenzi, di ambiguità, di “non detti”. Sorvolando sulle responsabilità. Ed è un bene che – con serietà – ora lo faccia un “protagonista”, anche se facendolo perpetua il suo dolore.
Il libro si apre con queste righe, <In ricordo di Stefano z”l w di Sabrina z”l>:
Quante cose non ti ho detto fratello mio.
Poche corse e pochi giorni prima dell’oblio.
l tempo aggiusta tutto mi hanno detto,
ma non smette di far male quel dolore in mezzo al petto.
[…]
Qui mi fermo. Sperando che molti leggano Il silenzio che urla.
Non posso, tuttavia, non segnalare un altro libro pubblicato sul quel 9 ottobre. Si deve a Massimiliano Boni e Roberto Coen, per le edizioni Salomone Belforte&C. Titolo Una ferita italiana?
Ha un taglio totalmente diverso ed è molto interessante. Meno memoria, più indagine. Anche questo da leggere.