Tunisia, lavori in corso. È uno Stato in crisi, politica ed economica. Rischia il fallimento. Se l’ipotesi peggiore si verificasse, a due passi da casa nostra, sarebbe una catastrofe. Non solo per i tunisini. Tentare in ogni modo di salvarla è una priorità, italiana ed europea. Intanto da Sfax salpano i barchini. Uno Stato in crisi non può contrastare le organizzazioni che lucrano sull’emigrazione clandestina dall’Africa subsahariana. In verità la Guardia Costiera di Tunisi ci prova, ma è come raccogliere l’acqua con lo scolapasta. Quella italiana funziona e salva vite. Ma quanto può durare?
La questione è seria, serissima. E anche ingolfata di paradossi. Per quanto ci riguarda. Da un lato cerchiamo di contenere il flusso dei clandestini senza abbandonarli al loro destino. Dall’altro abbiamo bisogno di manodopera. È un corto circuito. Il decreto flussi prevede che i lavoratori stranieri extraeuropei possano fare domanda in via telematica. Ieri era il cosiddetto click day. È un po’ come l’annuale riffa statunitense per ottenere la carta verde. Tanti ci provano. Pochi ci riescono.
Quest’anno il decreto ha messo a disposizione 82.705 posti, 13mila in più del 2022. Aperta la riffa, le domande sono state 238.335. Il sito è andato in tilt. Domanda e offerta non si sono incrociate. Il mondo agricolo lamenta che i 44.000 lavori a esso destinati sono pochi, ne servirebbero 100mila. Si tratta di stagionali. Finite le raccolte, devono tornare indietro. Stabili sono invece i lavoratori destinati ad altri settori: autotrasporto, edilizia, meccanica, telecomunicazioni, settore turistico-alberghiero, cantieristica navale. Mancherebbero, sembra, anche le colf.
Come rompere il corto circuito? Aumentare il numero dei permessi sembra la soluzione più facile. Ma in realtà non lo è. Quanti lavoratori servono all’Italia? Duecentomila? Trecentomila? Mezzo milione? Se fossero mezzo milione, chi ci assicura che le domande non sarebbero il doppio?
Non solo. Le imprese, di qualunque settore, hanno bisogno di lavoratori formati. Non è che in Senegal abbondino falegnami e carpentieri, per esempio. E non è che in agricoltura non servano professionalità specifiche. Mica si tratta solo di raccogliere pomodori. Potare le viti, per fare un altro esempio, è cosa seria, non da dilettanti allo sbaraglio. Ne consegue che, se questi lavoratori servono, li si deve formare a monte o a valle, con accordi – anche economici – con i paesi di origine. Ma non è cosa semplice.
In ogni caso, resta il paradosso principale. In Italia il tasso di disoccupazione non è pari a quella che si definisce frizionale, che deriva dalla naturale entrata e uscita da posti di lavoro, dura poco ed è praticamente ineliminabile anche nelle economie avanzate e in crescita. Di norma non supera l’1/2 per cento della forza lavoro.
Secondo l’Istat, nel gennaio 2023 il tasso di disoccupazione totale italiano è salito al 7,9% (+0,1 punti), quello giovanile al 22,9% (+0,7 punti). Dunque posti di lavoro ce ne sarebbero e, in teoria, non servirebbero centinaia di migliaia di lavoratori stranieri. Neppure per l’agricoltura. Eppure, entro il 31 marzo 2023, gli aventi titolo devono presentare la domanda di disoccupazione agricola. Non è un paradosso? I disoccupati temporanei non possono occupare i posti di lavoro esistenti? Sto naturalmente semplificando. Si può obiettare, banalmente, che per un contadino piemontese è difficile trasferirsi, sia pure per tre mesi, nel Sannio. È vero. Ma non è che per un senegalese la vita sia più facile.
Non ho la ricetta magica. Ma nella ricerca disperata di lavoratori stranieri, anche a tempo determinato, c’è qualcosa di non detto. Non è bello, ma è un po’ il segreto di Pulcinella. Cioè, ciclicamente è accaduto (quando gli immigrati italiani erano necessari nelle miniere belghe, per dire). In una società “ricca” – senza adeguati sostegni – si preferisce la disoccupazione o il reddito di cittadinanza, piuttosto che occupare posti di lavoro scomodi e instabili. Si è perso il modello della grande industria d’inizio Novecento, quando era scontato che assumere operai comportasse la disponibilità di alloggi per loro e per le loro famiglie. Interi quartieri sono stati costruiti per questo. Per non dire delle colonie marine per le vacanze. Il boom manifatturiero ci fu con questa visione. Oggi si pretende che, con retribuzioni basse anche se regolari, il dipendente si sposti senza alcuna garanzia. Gli italiani non sono più disponibili. Gli stranieri, che provengono dalla povertà, si accontentano di quel che trovano, anche per pochi mesi. Costretti poi a tornare indietro. Un pendolarismo della povertà che, francamente, a me pare immorale. Una sorta di neoschiavismo mascherato. Che non riguarda solo l’Italia, sia chiaro. Ma di questo si tratta. E se famiglie intere rischiano la vita con i barchini, vuol dire che esiste un mercato parallelo del lavoro per i clandestini.
Mi fermo qui. Ma al prossimo che si lamenta della penuria di operai, contadini, camerieri, lavapiatti, etc., glielo dico in modo molto più chiaro. Anzi, gli domando: ma voi sareste disposti per 1200 euro al mese, non potendo pagare vitto e alloggio decenti, a vivere in tuguri? Così, per sapere… Ma qualcuno mi risponderebbe: vabbè, ma quelli ci sono abituati… Dimenticando di quando “quelli” eravamo noi.