C’è il fascino del bianco e nero. C’è il richiamo al neorealismo, con quella Roma popolare e povera che a fatica usciva dalla guerra, dall’occupazione nazista e da quella angloamericana. C’è l’ottimista Aprite le finestre al nuovo sole (e ai nuovi sogni) che sbancò con Franca Raimondi a Sanremo, nel 1956, quando il clima era però già cambiato e si intravvedeva sul serio la primavera del boom economico.
C’è la corsa angosciante di Delia, che sembra evocare quella di Anna Magnani in Roma città aperta. Ma Pina corre verso la morte per mano nazista. Delia corre, ma lo si scopre alla fine, verso l’emancipazione della donna, suggellata con il diritto di voto. E siamo al 2/3 giugno del 1946. “Signore, attente al rossetto”, ammonisce il presidente del seggio. C’è una regia accurata, attenta, che tradisce il neorealismo “sporcandolo” con il ballo fantastico esaltato dalla ripresa circolare.
C’è, forse, anche troppo in questo esordio alla regia di Paola Cortellesi. Bravissima attrice, sembra aver voluto firmare un capolavoro autoriale. Il botteghino le dà ragione. Gli spettatori sono chiamati a una commozione facile. Non tanto per il diritto di voto conquistato – Delia avrà scelto monarchia o repubblica? – quanto per la simbologia della scheda elettorale scelta come emblema del riscatto da una vita familiare fatta di stenti, di fatica, di violenza. Di violenza, soprattutto.
Ivano, l’ottimo Valerio Mastrandrea, è lo stereotipo del marito-padrone che controlla e decide ogni minuto della vita di una Delia che si spacca la schiena per contribuire alla sopravvivenza della famiglia. Padrone e violento. Per quanto Delia fatichi, arriva sempre il momento della violenza, delle botte, unica arma per rivendicare – in un contesto di assoluto degrado culturale – l’autorità maschile.
L’affresco dipinto dalla Cortellesi è tuttavia denso di retorica e di corti circuiti. In quell’ambiente dominato dal disagio sociale l’unico violento è Ivano. Gli abitanti di quella piazzetta romana sono lavoratori umili, non violenti. L’appartamento dove vive la famiglia di Delia, a livello delle cantine, o se si preferisce dei locali seminterrati che una volta si chiamavano “degli autisti”, oggi sarebbe ricercato e costoso nella Roma dei quartieri semi-centrali.
Nel chiuso di quelle stanze spoglie, con finestre che danno sull’impiantito del cortile, si scatena la violenza . Era nella realtà, all’epoca, più diffusa? È possibile. Le donne erano sottomesse. Certo, ma – salvo eccezioni – lo erano anche nelle famiglie borghesi. Attribuire violenza e autoritarismo agli ambienti proletari suona un po’ “razzista”, e non racconta tutta la verità. A parte la fame, la borsa nera con i suoi nuovi ricchi, il paradosso della famiglia vittima della violenza che, unita, non manca alla messa domenicale.
La verità, sempre complessa, è altro. Il diritto di voto che le donne italiane aspettavano da decenni – ma le americane lo ebbero solo un quarto di secolo prima – non bastò ad affrancare le vittime designate. Ma la verità non si può pretendere in un film. Già è difficile in un documentario. Dunque va benissimo C’è ancora domani. Il domani sarà lungo e difficile. E purtroppo la violenza in ambito familiare esiste ancora. Però non esageriamo con gli applausi. Prendiamo il film per quel che è: un’ottima prova d’autore, non un capolavoro. Né un manifesto politico. Ammesso che Paola Cortellesi abbia pensato a qualcosa del genere. Comunque, un film da vedere.
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“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi supera il milione di spettatori. Ma è davvero un capolavoro?