Talvolta è difficile leggere i quotidiani. Sono respingenti. Perché ripetitivi. Solo colpa dei giornalisti? Anche. Prima, però, degli editori, che non investono abbastanza. Fare buona informazione costa. La stampa tradizionale è in crisi, da tempo. Ormai la pseudo informazione dei social ha preso il sopravvento. E la gente si accontenta. Ma se si accontenta forse è anche perché i giornali non riescono ad andare oltre il già noto. E le pagine sono invase dai commenti, che costano poco, invece che dalle notizie.
Grandi scenari, per carità. I fronti aperti sono tanti, dalla guerra della Russia contro l’Ucraina a quella in Medio Oriente, scatenata da Hamas contro Israele. Ora riemerge l’eterna questione di Taiwan, indipendente di fatto ma non di diritto (internazionale). Gli Huthi yemeniti che, armati dall’Iran, costringono il traffico commerciale marittimo a riprendere la rotta del Capo di Buona Speranza. L’Ecuador alla prese con i narcos. Problemi seri, per i quali la soluzione non è dietro l’angolo. E sembra che tutto debba dipendere dalle prossime presidenziali americane. Torna Trump? E, se torna, il suo neo-isolazionismo estremo ci costringerà, come europei, a rinunciare all’ombrello difensivo statunitense? E giù con le analisi, come se gli analisti possano fare qualcosa di più che registrare gli umori.
Ecco, magari i lettori si aspettano più notizie che vaticini. Io, per esempio, mi aspetto da settimane qualche reportage serio dall’Argentina. L’elezione Javier Milei alla presidenza è stata rappresentata come una catastrofe. Come se i governi post-peronisti non fossero responsabili del tracollo finanziario di un paese potenzialmente ricchissimo. Ricordo un paio di sortite sulle proteste di piazza. Poi, il nulla. Silenzio. Anche se sarebbe interessante sapere come vanno le cose, se la vaticinata catastrofe si sta manifestando.
Insomma, i giornali sono deludenti, almeno per me. Anche per quel che riguarda l’Italia. Capisco bene che i cronisti politici devono lavorare. Ma è possibile che si ritenga fondamentale discutere da settimane sul tema: Schlein e Meloni saranno o no capolista in tutte le circoscrizioni elettorali per le europee di giugno? E Conte? E Salvini? Una discussione stantia, inutile. Che cosa cambia? Dovremmo scandalizzarci perché, poi, i leader si dimetteranno? In elezioni che, dagli elettori, in parte a ragione, sono percepite come un grande sondaggio, i leader servono per una conferma identitaria dei loro partiti. Non da oggi. E sarebbe un vulnus nel sistema democratico?
Ancora elezioni. Quelle regionali. Ha un senso il dibattito sul terzo mandato per i “governatori”? 15 anni sono tanti. Ma abbiamo avuto un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in carica per quasi 9 anni, invece che per 7. Il presidente Mattarella potrebbe arrivare a 14. E la nostra democrazia non ne sta soffrendo. Negli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt fu presidente per 12 anni. Se non fosse morto nel 1945, eletto quattro volte, lo sarebbe stato per 14. Agli americani sembrò eccessivo. E nel 1951 decisero di limitare a 2 consecutivi i mandati presidenziali, cioè a otto anni. Ragionevole. Ma i poteri del presidente USA non sono neppure paragonabili a quelli, pur significativi, del presidente italiano.
Tornando alle regionali, che i candidati “governatori” siano scelti dalle coalizioni politiche sulla base del peso teorico dei partiti che le compongono è ovvio, da sempre. Quando le elezioni non erano dirette, il presidente veniva eletto dal consiglio sulla base dei seggi spettanti ai partiti alleati. È così strano? Su che cosa ci stiamo accapigliando? Oggi, se le coalizioni sbagliassero candidato, perderebbero. Tutto qui. Da settimane stiamo discutendo di lana caprina. I partiti decidono. Noi votiamo. Se sbagliano, anche i leader ne pagheranno le conseguenze. Ma non sta crollando il mondo. Si chiama democrazia.
La chiudo qui, un po’ scoraggiato dal livello della stampa. Poi, c’è qualche spiraglio. Raro, soprattutto per “La Repubblica”. Di oggi. Il concorrente “Corriere della Sera” in prima pagina cerca, con Aldo Grasso, di spiegare alla Schlein come dovrebbe prepararsi per un ipotetico confronto televisivo con la Meloni. Cadono le braccia. Invece “Robinson”, inserto culturale della “Repubblica”, pubblica una lunga intervista a Fran Lebowitz, realizzata da Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni. 73 anni, scrittrice, attrice, ebrea atea, profondamente americana, definita “regina newyorchese della comicità”, capace di sfidare il politically correct”. Ne so poco, quasi niente. Leggo. Interessante, in generale. Non banale.
A colpirmi, in particolare, è la risposta all’ultima domanda sulle nuove generazioni. Eccola: <Sono l’unica persona che conosco a non avere iPhone e computer. Sarebbe impossibile non averli se avessi vent’anni. Significherebbe non partecipare alla vita. Ai ragazzi non succede nulla che non abbiano visto in rete; la loro vita è in quel telefono. È per questo che quando qualche idiota quando qualche idiota lascia cadere per errore il cellulare sui binari della metropolitana, cerca di scendere a riprenderlo. Per me è meglio perdere il telefono che la vita; per loro, invece, non c’è differenza tra la vita e il telefono>.
Ecco, questo mi pare il problema del presente e del futuro. Una riflessione fuori del coro. Anche di quello consueto di “Repubblica”, che oggi cerca di difendere, come fosse un dovere d’ufficio, la neo-regista Cortellesi per la scivolata su Biancaneve e sulle favole “sessiste”. Temo che Fran Lebowitz, se ne avesse contezza, la farebbe nera.