Difficile dire se la tregua – o, se si vuole, il cessate il fuoco – in Libano durerà. Sessanta giorni? Di più? Di meno? In senso stretto di un passo avanti decisivo verso la pace non si può parlare. Peraltro dovrebbe essere firmata non da Hezbollah, che non è uno Stato. Il “Partito di Dio” rappresenta solo una parte, minoritaria, del popolo libanese. Minoritaria ma armata e finanziata dall’Iran, cioè da uno Stato estero che condiziona pesantemente Beirut “gestendo” Hezbollah.
Certo l’offensiva militare israeliana in Libano ha colpito duramente. Non solo eliminando, il 27 settembre scorso, il leader Hassan Nasrallah. La risposta dì Hezbollah non è mancata. I missili sono piovuti su Israele. Un incubo, ma di scarsa efficacia. Scattata la tregua in piena notte, gli sfollati dal sud controllato dall’organizzazione terroristica sciita si sono incolonnati verso i loro villaggi. Si sono viste anche bandiere di Hezbollah e tante “V” di vittoria. Di quale vittoria si tratti e’ difficile capire. Ma nelle guerre la propaganda ha sempre un ruolo.
Comunque la tregua è un segnale importante. Sicuramente per Israele, che potrà alleggerire il fronte settentrionale e occuparsi di Gaza e, come ha detto Nethanyau – ma anche questa è propaganda – di come fronteggiare un eventuale attacco iraniano.
Certo è che nella terra dei cedri ora si respira. Il premier libanese, Najib Mikati, ha definito il cessate il fuoco come “un passo fondamentale verso la stabilità regionale”. Poi bisognerà capire se, come chiede Israele, le forze armare regolari libanesi sapranno affiancare l’Unifil nel controllo del territorio, soppiantando le milizie di Hezbollah, provate ma ancora attive. Il problema è sempre lo stesso dal 2006. “A Hezbollah non sarà consentito di minacciare più la sicurezza di Israele”, ha assicurato il presidente americano Joe Biden. Con quale strumento se le forze ONU – italiani compresi – restano ancorate alle attuali regole d’ingaggio?
Si tratta di un nodo fondamentale da sciogliere. Non per caso la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni ha toccato proprio questo punto. “L’annuncio ieri notte del cessate il fuoco in Libano – a detto in una iniziativa sul Mediterraneo – è uno sviluppo molto importante e positivo, ovviamente dobbiamo considerarlo un punto di partenza e non di arrivo. Per fare questo, come anche l’accordo sul cessate il fuoco prevede, è fondamentale dare finalmente piena applicazione della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, rafforzando la capacità di Unifil e delle forze armate libanesi. Bisogna cogliere questa opportunità e lavorare con convinzione alla stabilizzazione del confine israelo-libanese, che permetta a tutti gli sfollati, sia israeliani, sia libanesi, di tornare alle proprie case in sicurezza”. Ma sul rientro degli sfollati al sud Nethanyau già protesta.
Biden ha anche aggiunto che presto “gli Usa lanceranno una nuova iniziativa insieme a Turchia, Egitto, Qatar, Israele e altri Paesi per raggiungere il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas”. Tenterà, in sostanza, di dare un senso a trattative finora fallite, sia sul tema degli ostaggi sia sul futuro della Striscia, che in teoria dovrebbe tornare sotto il controllo dell’Anp.
Sarebbe auspicabile, anche nella prospettiva di trasformare finalmente l’autorità palestinese in uno Stato degno di questo nome. Hamas ha affermato di essere ora “pronto” per la tregua a Gaza. “L’annuncio del cessate il fuoco in Libano è una vittoria e un grande successo per la resistenza”, ha dichiarato un alto funzionario dell’ufficio politico di Hamas. E ha aggiunto che “Hamas è pronto per un accordo di cessate il fuoco e per un serio accordo di scambio di prigionieri”. Un dichiarazione che sembra un ritornello, per quante volte è stata diffusa nei mesi scorsi. Si può essere ottimisti?
C’è una differenza, tuttavia, rispetto al passato. E’ la prima volta che il presidente USA si intesta direttamente un’intesa. Sul Libano ha assunto un ruolo di garanzia, pur chiarendo che non invierà truppe americane dalle parti del fiume Litani. Co-garante sarà la Francia, nel nome degli antichi rapporti privilegiati con l’ex Svizzera del vicino oriente. Una formalità.
Comunque c’è da sperare. Con il suo interno Biden sta provando a chiudere in bellezza il suo mandato presidenziale. Un modo per passare alla storia. A Donald Trump toccherebbe ovviamente la gestione di un difficile futuro. A far sperare e’ la stanchezza non di Israele e dei suoi nemici giurati, ma dei Paesi dell’area. Non va dimenticato che la strage del 7 ottobre è stata perpetrata mentre si stavano svolgendo colloqui tra Israele e Arabia Saudita. Colloqui che, se fossero andati a buon fine, avrebbero politicamente indebolito l’Iran. Sempre all’Iran bisogna guardare per capire che cosa accadde e accade.
Ma c’è anche da sperare che Nethanyau non preferisca prendere tempo, puntando sull’ipotesi di poter ottenere un accordo migliore con Trump presidente. Non è tuttavia detto che il successore di Biden, al di là dei proclami, non ragioni, insediato alla Casa Bianca, in termini di realpolitik. Vedremo.
Pubblicato anche su https://www.thesocialpost.it il 28 novembre 2024